Nello Scavo, Avvenire 3/1/2014, 3 gennaio 2014
LA LISTA DI BERGOGLIO - PUNTATA N. 5
SERGIO E ANA GOBULIN -
«Spaccarono le porte. Gettarono tutto per aria. Dissero che cercavano armi». Se ne infischiarono della bambina piccola, di una famiglia che aveva il solo torto di lottare per i diritti e la dignità degli emarginati. Fu un’intimidazione. Alla polizia segreta non piaceva quell’idea di «liberazione» che si spingeva in ogni angolo della società, che penetrava nelle diverse strutture: nella chiesa aperta verso il mondo, che coinvolgeva esperienze e personalità che tempo prima non si sarebbero mai incontrate, nelle organizzazioni sindacali, nelle facoltà universitarie, nei quartieri di tutta l’Argentina.
La voce di Sergio e Ana Gobulin tradisce l’emozione di chi deve districare il filo spinato dei ricordi per ritrovarvi il senso di quello che è stato.
«Bergoglio, contrariamente a quanto alcuni vogliono far credere, era parte di questo clima di novità. Con i piedi ben piantati nella tradizione dei valori cristiani e lo sguardo che si spingeva lontano, più di quanto noi potessimo immaginare», dice Sergio.
Fu merito di quel sano realismo se padre Jorge riuscì a convincerli che, da morti, lui e la moglie non avrebbero potuto più continuare nella loro missione. Raccontano di quel che fu senza rimpianti. Da trent’anni vivono in Italia, dopo una rocambolesca fuga da Buenos Aires. Non è stato facile ambientarsi in Friuli, da dove Sergio era partito coi genitori quand’era un marmocchio incosciente di quel che sarebbe stata la sua vita in terre remote e gravide di speranza.
Adesso che va per i settanta, Gobulin centellina parole e ricordi, come si fa quando si vuole esser certi di voler mettere sulla bilancia della vita solo ciò che ha un peso. «Animato dalle spinte post-conciliari, decisi di lasciare la provincia di Santa Fe per recarmi a studiare teologia nella capitale federale». Al Collegio dei gesuiti a San Miguel potevano accedere anche i laici. Sergio continua a raccontare: «Nell’anno 1970, ancora studente di teologia decido, per coerenza con le mie convinzioni, di andare a vivere in una villa miseria [baraccopoli, ndr] alla periferia di Buenos Aires. Con un gruppo sempre più numeroso di residenti del quartiere, ci impegniamo in diversi lavori: assistenza a famiglie poverissime che provenivano dall’interno del paese e delle nazioni limitrofe, creazione di una scuola serale per l’alfabetizzazione degli adulti, assistenza sanitaria, assistenza a ragazze madri e altre opere di utilità sociale». Erano gli anni della speranza nella costruzione di una società più giusta, e questo, ricorda Gobulin, «comportava un’opzione preferenziale per gli emarginati». Voleva dire, prima di tutto, stare in mezzo a loro. È in quel periodo che conosce Bergoglio. Jorge non era ancora sacerdote. Verrà ordinato il 13 dicembre 1969, quattro giorni prima di festeggiare il trentatreesimo compleanno. Intanto Sergio si guadagna da vivere lavorando come impiegato in uno dei centri di ricerca della Compagnia. È qui che incontrerà la futura moglie. Ana faceva da maestra ai figli di alcuni insegnanti.
Da lì in avanti, l’amicizia tra padre Jorge e Gobulin percorrerà migliaia di chilometri. A Sergio capitò di accompagnare il futuro pontefice nei suoi viaggi in macchina all’interno del paese. Tra le distese sterminate della pampa, oppure attraversando le baraccopoli dimenticate, «non solo si parlava della missione della chiesa, dell’impegno dei cristiani, ma anche della situazione argentina, dei cambiamenti, delle speranze e delle difficoltà».
Nella villa miseria Sergio dava una mano a reperire il materiale per costruire le case, riordinare le strade, aiutare le famiglie quando c’erano le inondazioni, scavare canali, costruire una rete per l’acqua potabile e diverse strutture per la comunità. Nacquero così una scuola per l’alfabetizzazione, un ambulatorio per l’assistenza medica di base, un centro per l’accompagnamento delle ragazze madri. «In mezzo a grandi difficoltà, fra la gente c’era un clima di gioia. Organizzavamo serate di festa e ballo, alle quali partecipava gran parte della popolazione della “villa” per raccogliere i fondi necessari ad acquistare il materiale. Ridevamo tra noi quando parlavamo di “raccogliere soldi fra la gente che non ne ha”».
«Gli anni della dittatura sono stati anni di negazione assoluta di tutte le libertà: di pensiero, di parola, di informazione, di azione – ricorda Gobulin –. Anni di dura repressione contro quelli che si opponevano alla giunta. Abbiamo reagito in tanti, soprattutto giovani, convinti della necessità di contrastare questa negazione, che calpestava i diritti fondamentali della persona. Abbiamo agito nel nostro fare quotidiano, giorno dopo giorno. E per questo, tanti, più di trentamila, sono entrati nel “tunnel della sparizione” senza uscirne più».
Dall’abbecedario alla rivendicazione politica, il passo è breve. Nella villa miseria la gente cominciava a farsi sentire. Chiedevano di non essere più trattati come cittadini di terza classe. Anche Bergoglio, una volta nominato provinciale dei gesuiti, volle conoscere più da vicino quelle realtà. «La prima volta si fermò con noi per alcuni giorni. Tornò in Collegio profondamente colpito da quell’esperienza».
Sergio e Ana si sposarono il 14 novembre 1975. La celebrazione, in una parrocchia di quartiere, fu presieduta da padre Jorge. C’erano i genitori degli sposi, che per anni nasconderanno gelosamente le foto delle nozze, un ricordo prezioso che non volevano cadesse nelle mani della polizia. Pochi giorni dopo essersi promessi eterno amore, si ritrovarono la casa messa a soqquadro dai militari. Gli sposini erano al cinema. Quando rientrarono, sembrava fosse passato un battaglione di cingolati. «Non avevamo fatto niente di male, non possedevamo armi, non appartenevamo ad alcuna organizzazione terroristica», dice Sergio. Con la moglie e i vicini del quartiere rimisero in ordine la casa. Continuarono come niente fosse avvenuto, certi che al termine della perquisizione gli agenti si fossero convinti che il loro impegno tra gli emarginati non celasse secondi fini.
Passa quasi un anno e l’11 ottobre 1976 Sergio Gobulin viene chupado («risucchiato»). Quella mattina aveva ottenuto un giorno di permesso dal lavoro. Ne aveva bisogno per sistemare alcune faccende di famiglia. Anche Ana era rimasta a casa. Ancora ventiquattro ore e le sarebbe scaduta la licenza per maternità. I cacciatori di dissidenti, mostrando un certo dilettantismo, non ne erano al corrente. L’operazione per poco non si concluse in un imbarazzante fallimento. Quando scoprirono che Sergio non era in ufficio, corsero a cercarlo nel quartiere. Lo incrociarono lungo la strada, non lontano dalla baracca.
Una gragnuola di pugni, un sacco di juta calato sulla testa, le mani legate dietro alla schiena. Lo portarono via senza dargli il tempo di reagire. Le colleghe di Ana, invece, fecero in tempo ad avvertirla. Uomini dall’atteggiamento inequivocabile si erano presentati nella scuola dove la ragazza insegnava. Riuscì a nascondersi presso alcuni conoscenti, sfuggendo al peggio che potesse capitarle. Sergio no. Per diciotto giorni rimase in balia di sconosciuti che lo trasferirono più volte: carceri, abitazioni private, caserme, di nuovo carceri. Sempre le stesse domande: «Che fate nel quartiere? Chi fa parte del vostro gruppo di terroristi?». Ana andarono a cercarla dai genitori. Niente armi. Niente documenti sospetti. Niente di niente. «E allora cosa volete?», domandò la madre. «Quelli che le armi ce le hanno nella testa», risposero.
Appena padre Jorge ne fu informato, fece scattare un’operazione di salvataggio in due direzioni: strappare Sergio ai militari e mettere al sicuro Ana. Come di consueto, il gesuita cominciò a indagare in proprio. Chiedendo in giro. Guardandosi attorno. Si recò da alcuni ufficiali per sostenere la causa dei suoi amici. Dopo le solite peripezie, riuscì a tirar fuori Sergio.
«I diciotto giorni del mio sequestro – racconta Gobulin – furono davvero duri, sia per le torture fisiche che, soprattutto, per quelle psicologiche. Dopo la mia liberazione venni a conoscenza, attraverso i miei familiari, degli sforzi compiuti per la mia ricerca e liberazione da parte di padre Jorge e dell’allora viceconsole d’Italia in Argentina, Enrico Calamai».
Mille volte, durante quei giorni, quando aveva ormai perso la cognizione del tempo, Sergio aveva temuto di essere arrivato a fine corsa.
Il 29 ottobre era certo che sarebbe finita male. Gli diedero una ripassata, l’ennesima. In realtà, era l’«arrivederci» degli aguzzini. In tre settimane non era mai riuscito a vederli in faccia. Venne scaricato in strada, non lontano dalla casa dei suoceri, legato e bendato, così dolorante da non riuscire a rimettersi in piedi.
Di tempo ne restava poco. Attraverso la nunziatura apostolica, Bergoglio fece interessare alla questione Enrico Calamai, l’eroico console italiano protagonista di centinaia di salvataggi.
«Dopo la mia liberazione, Calamai mi fece ricoverare all’Ospedale italiano di Buenos Aires insieme, per motivi di sicurezza, a mia moglie e a mia figlia. Io e Ana pensavamo che, una volta recuperato il mio stato di salute, ci saremmo allontanati dalla capitale».
In corsia ci rimasero più di un mese. Un giorno confidarono all’amico gesuita il loro piano: trasferirsi nell’entroterra argentino. Lontano dai militari, per poter ricominciare.
«È il tempo del coraggio. Qui i guai non sono finiti, né per voi né per l’Argentina. Vi cercheranno ancora. Ascoltatemi, lasciate il paese», li esortò padre Jorge. Sergio Gobulin ricorda: «Ci raccontò dei vari tentativi fatti per ottenere la mia libertà e dimostrare la mia innocenza, tentativi che avevano richiesto che egli incontrasse diverse personalità della gerarchia delle Forze armate. Perciò ci ripeté di andare via. Sapeva che altri gruppi dell’esercito mi stavano cercando». «Quando le mie condizioni di salute lo permisero, il dottor Calamai ci accompagnò negli uffici competenti per la documentazione necessaria e mi pregò di fare una dichiarazione dell’accaduto, perché sarebbe stata utile al governo italiano per documentare i casi di sequestro e scomparsa dei suoi cittadini».
Contattato per verificare questa ricostruzione, Calamai ha spiegato di «non avere mai avuto a che fare direttamente con Bergoglio. Il suo nome, anzi, in quegli anni non l’ho mai sentito». Dalla nunziatura, però, «mi arrivavano delle segnalazioni e non è escluso che quella dei Gobulin fosse tra esse». Sergio e la moglie raccontano di avere ricevuto un passaporto nuovo di zecca direttamente dal Consolato italiano, e i tre biglietti di sola andata per l’Italia. Calamai li accompagnò a completare i documenti di espatrio: «Faceva persino la coda agli sportelli con noi. C’era la possibilità di un nuovo rapimento, ma in presenza di un diplomatico il rischio era molto minore», ricorda Sergio con tutta la gratitudine che si deve a un eroe come quello, capace di salvare centinaia di vite fornendo un salvacondotto a chiunque glielo chiedesse. Un personaggio così avrebbe meritato, quantomeno, la promozione ai gradi superiori, perfino un seggio da senatore a vita. Invece, ci rimise la carriera.
Anche Jorge Bergoglio ha dovuto pagare un prezzo ai calunniatori di professione. Ed è questa l’unica ragione che ha convinto Sergio e Ana a rompere il patto del silenzio durato quasi quarant’anni. Una storia di cui non avevano mai voluto parlare a nessuno. Essi oggi affermano: «Lungi dall’entrare nella polemica che ha coinvolto Bergoglio sul suo operato durante la dittatura; lungi dall’entrare a far parte di schieramenti a favore o contro, il nostro intento resta quello di rendere testimonianza pubblica, quindi non solo personale, di quel periodo, che crediamo vada al di là della figura di Bergoglio». Sergio e Ana precisano: «Non ci interessa farci pubblicità né approfittare dell’amicizia con padre Jorge. L’uomo a cui dobbiamo la vita è diventato papa. E noi che lo abbiamo conosciuto da vicino non possiamo non vederci un disegno della Provvidenza».
Gli aguzzini che fecero affogare decine di migliaia di dissidenti nelle acque del Rio della Plata non erano amanti delle sottigliezze. L’equazione non ammetteva alternative: vivere tra i poveri voleva dire essere «comunisti». Sergio e Ana intendevano la politica come impegno, come solidarietà, come difesa dei più deboli. Ma non bastò.
«Ricordo quando Jorge veniva nella mia baracca di lamiere e terra battuta», rammenta Sergio. «Si fermava per alcuni giorni in ritiro spirituale. Era in quei momenti che si capiva che lui non era tipo da chiacchiere e letture teologiche sotto a un ventilatore. Era un uomo di missione. I poveri li ascoltava, li osservava nella loro miseria e nei loro slanci. Si immergeva nella loro realtà, nella sofferenza delle persone, si calava nella profondità dei loro cuori, per poi risalire trasmettendo il suo messaggio di speranza».
Di queste sue visite ai baraccati, padre Jorge non parlava quasi con nessuno. «Vivevamo un grande momento di trasformazione. Eravamo parte di una comunità che finalmente si rinnovava. C’era un fermento che non potremo mai dimenticare», ricordano i coniugi, che nel luglio 2013 si sono recati da pellegrini ad Aparecida, in Brasile, durante la Giornata mondiale della gioventù, per riabbracciare l’amico divenuto papa Francisco .
Sergio ripete ciò che vuole non si dimentichi: «Ho avuto la fortuna di uscirne vivo. Ma è stato merito della testardaggine di persone importanti, che mi hanno cercato nelle varie caserme dell’orrore. È in questo contesto che emerge la figura di Bergoglio». Tornare nel Cono Sur per loro è ogni volta un’esperienza del cuore. Impossibile cancellare quel che accadde il 17 gennaio 1977. Arrivarono sul molo di Buenos Aires. C’era anche padre Jorge, che osservava il piroscafo solcare il riflesso di un tramonto d’estate. Una di quelle navi da cui i suoi genitori erano sbarcati in Argentina. Anche Sergio era arrivato nel «nuovo mondo» ventisette anni prima, quand’era un bambino di quattro anni. «Salpata la nave, realizzammo che padre Jorge ci aveva salvato la vita. Ci aveva anche dato del denaro per sostenere le spese di espatrio. Se non ci fosse stato lui, non saremmo qui a parlarne». La vita, a volte, si annida in un dettaglio. La macabra contabilità delle vite spiaggiate, dei sogni svaniti ad alta quota, avrebbe potuto essere perfino più crudele se non ci fossero stati quelli come Bergoglio. «Oltre a “liberare” persone che erano scomparse, o altri che rischiavano di sparire, padre Jorge ha salvato “in modo indiretto” tantissime altre vite. Questa affermazione – osserva Sergio Gobulin – non è il risultato di un ragionamento dimostrabile; ma di una convinzione maturata dopo la mia liberazione ». È un ragionamento che porta lontano. «La dittatura militare per realizzare ed estendere capillarmente il piano repressivo, voleva dalle loro vittime i racconti, i fatti, ma soprattutto “i nomi”. Strappare attraverso la tortura fisica, psicologica o anche drogando le vittime, i nomi di amici, dei compagni di lavoro, dei vicini di casa, era la prassi per compiere ulteriori sparizioni ». Il grado di resistenza variava da persona. C’era chi alla sola vista dei «ferri» vuotava il sacco, e chi prima di cedere si faceva ridurre a brandelli. «È evidente che più tempo si trascorreva nelle camere dell’orrore e più cedevano le barriere della sopportazione ». Proprio per questo, tantissime persone sono state salvate «a loro insaputa» dall’impegno di Bergoglio. «Quando lui, come nel mio caso, riusciva a ridurre di settimane, se non di mesi, il tempo di permanenza in mano agli aguzzini, era molto probabile che questi non avessero ancora in mano i nomi che cercavano. Così decine di persone non sono state neanche sfiorate dai militari solo perché si fece in tempo a non far circolare gli “episodi sospetti” che li riguardavano», dice Sergio.
Padre Jorge non smise mai di chiamare Sergio e Ana. Sei mesi dopo aver preso il mare verso l’Italia, Bergoglio volle vedere di persona come i Gobulin fossero riusciti a sistemarsi. Andò a trovarli in Friuli. L’anno prima c’era stato il devastante terremoto nelle regioni del Nordest. Anche quando arrivò Bergoglio ci fu una scossa in piena notte. «Presi mia figlia e scappai fuori casa, mentre Sergio svegliò Jorge», ricorda Ana. Tra la folla in strada nessuno sapeva che l’ospite dei Gobulin fosse un prete. La gente, terrorizzata dalla devastazione dell’anno prima, cominciò a pregare nel buio, invocando la protezione del Creatore. Il gesuita argentino rimase colpito da tanta devozione, al punto che al mattino dopo volle essere accompagnato per le vie del paese e vedere da vicino quei fedeli così devoti. «Rivedemmo alcuni di loro. Tornati alla normalità, anziché pregare bestemmiavano». Bergoglio non si scompose. Preferì tacere e pregare per loro. Alcuni anni dopo, quando la famiglia Gobulin poté ritrovarsi ancora una volta con l’amico prete di Buenos Aires, lui rievocò quel breve soggiorno in Friuli. D’un tratto, con quell’espressione sorniona che prelude a chissà quale trovata, domandò: «Lì nel vostro paese continuate a pregare sempre in quel modo?».
Sono molte le cose che Sergio e Ana non potranno mai scordare di padre Jorge. Come quando nel 1978, sei mesi dopo l’addio all’Argentina, il provinciale andò a trovare la madre di Sergio, rimasta nel paese con il resto della famiglia. Le consegnò una busta. Dentro c’erano i soldi per un viaggio: «Va’ a trovare tuo figlio».
«Te queremos papa Francisco! Llenas de alegría nuestros corazones! » («Ti amiamo, papa Francesco! Riempi di gioia i nostri cuori!»). Qualcuno ha visto il solito opportunismo politico nel tweet lanciato dal governatore di Córdoba pochi minuti dopo l’elezione di papa Francesco. José Manuel de la Sota è un esponente del Partito Giustizialista Argentino, ma dal 2011 si oppone al kirchnerismo e ha fondato una corrente peronista federale con altri governatori delle province.
Il suo entusiasmo è sincero. In effetti, de la Sota è in debito con Bergoglio. Uno di quei debiti che non si estinguono: «Mi ha salvato la vita, facendomi uscire di prigione». Tra Córdoba e i gesuiti scorre un affetto antico. La Manzana Jesuítica e le Estancias de Córdoba sono una ex missione costruita dalla Compagnia (dal 2000 patrimonio mondiale dell’umanità per l’Unesco). Nella Manzana Jesuítica , nel centro della città, trovano sede l’Università di Córdoba (una delle più antiche del Sudamerica), il Collegio Monserrat, una chiesa e altri edifici ammirati ogni anno da migliaia di turisti. Il complesso, la cui fondazione risale al 1615, fu abbandonato dai gesuiti nel 1767, quando re Carlo III di Spagna ordinò la loro espulsione dal subcontinente. Il posto della Compagnia venne preso dai francescani, che lo restituirono nel 1853, quando i gesuiti poterono tornare nelle Americhe.
L’importanza del ruolo delle missioni gesuitiche nella provincia di Córdoba è testimoniato da un dato: la strada delle Estancias, che collega palazzi, case e cappelle costruiti dalla Compagnia di Gesù, è lunga circa 250 chilometri. È questa la geografia del cuore nella quale è cresciuto de la Sota, che a Córdoba ha frequentato il liceo presso l’Istituto dell’Immacolata, prima di laurearsi in Legge e diventare un avvocato in carriera. Già all’inizio degli anni Settanta il futuro governatore (che per un breve periodo è stato anche ambasciatore d’Argentina in Brasile) ebbe a misurarsi con la polizia, quando veniva perseguito per il suo «proselitismo peronista». Il colpo di stato del ’76 fermò l’orologio della storia e il calendario di milioni di persone.
«Padre Jorge intervenne ripetutamente dopo che la mia famiglia si era rivolta a lui raccontandogli cosa mi era accaduto». Il giovane José Manuel fu rapito dopo un raduno politico a Villa Cura Brochero, una cittadina in provincia di Córdoba. «Bergoglio riuscì a intercedere quando fui sequestrato dai militari. Intervenne molte volte per farmi scarcerare», ha ricordato l’uomo politico. E non è per sentito dire che de la Sota parla di altri salvataggi: «Molti di noi hanno ricevuto il suo aiuto caritatevole nei momenti difficili vissuti durante la dittatura militare», assicura. «Vengo da una famiglia cattolica», ha ricordato, descrivendo la sua formazione giovanile. «Molti sacerdoti, e anche vescovi, a quel tempo fecero del bene correndo molti pericoli. Bergoglio era uno di questi e chi lo attacca compie un atto di viltà, perché tutti sanno quello che lui ha fatto per salvare decine di vite».
Di più, per ora, de la Sota non dice. Infatti non ha l’intenzione di rinfocolare polemiche, e neppure di apparire come uno dei tanti pronti a rifarsi il curriculum accampando una conoscenza diretta del papa.
«Credo che l’Argentina stia vivendo un momento molto speciale. Un prete di quartiere è divenuto papa, e a tutti noi sta dimostrando quanto egli sia autenticamente umile, indicando un percorso per concepire e costruire una nuova umanità». Una cosa, però, de la Sota non riesce proprio a non dirla.
A rischio di guadagnarsi inimicizie anche dentro al suo partito, scandisce una frase: «Quei pochi che parlano con malizia del papa dovrebbero vergognarsi».
Il percorso di questa seconda parte si conclude ritornando alla lunga conversazione iniziale con il teologo Juan Carlos Scannone, il massimo esponente di quella che dagli anni Ottanta in poi è stata definita «teologia del popolo». Gesuita, poco più che ottantenne, ha in comune con i teologi della liberazione la spinta per la giustizia sociale e il richiamo a un’economia fondata sull’etica. «In conformità con la dottrina sociale della chiesa», precisa. Per il resto non si rinvengono significative convergenze. I militari, invece, non andavano per il sottile. Popolo o no, per essi erano tutti «preti comunisti».
Oggi Scannone è direttore dell’Istituto di studi filosofici presso la facoltà di Teologia e Filosofia di San Miguel, la stessa di cui fu rettore Bergoglio tra il 1980 e il 1986. La prodigiosa memoria di padre Juan Carlos gli permette di compiere una lunga cavalcata a ritroso nella storia argentina, dalla riconquista della democrazia agli albori della dittatura. «Come mai – gli domando, sperando di rompere un argine nel fiume della sua straordinaria storia di uomo di fede – nonostante lei sia considerato l’esponente di punta di una corrente tanto avversata dalla giunta militare, non si ha notizia di persecuzioni contro di lei?».
«Perché non ne ho mai voluto parlare prima! Sono passati così tanti anni e non mi andava di alimentare dibattiti e polemiche sull’arcivescovo Bergoglio. Adesso che il mio amico Jorge è diventato papa Francisco, posso raccontare che sì, lui mi coprì le spalle, mi salvò. E lo fece in svariate circostanze». Prima di tornare su questo argomento, Scannone ha voluto ricordare come conobbe il futuro papa. «Era mio studente di greco e letteratura. Con il tempo le parti si invertirono e padre Jorge diventò il mio padre spirituale, il mio rettore, poi il mio provinciale. È naturale, dunque, che fossimo in confidenza. È sempre stato un uomo molto austero e di grande intelligenza anche nelle cose pratiche. Per esempio, guida bene. Quando era rettore, rinunciò all’autista. Lo stesso fece quando divenne arcivescovo. È capace di fare più cose insieme. Dalle nostre parti quelli come lui li chiamiamo “uomini d’orchestra”, nel senso che sono capaci di suonare strumenti differenti». In una intervista all’ Osservatore Romano, Scannone ricordò che una volta Bergoglio «scrisse un articolo a macchina, poi fece il bucato, quindi accolse un fedele per un colloquio di direzione spirituale». Anche in cucina dicono andasse forte. Il maialino ripieno «alla Bergoglio» è una pietanza che in Collegio ancora ricordano.
Come si è detto, la dittatura percepiva la teologia del popolo come una minaccia, nonostante la sua sostanziale diversità dai cosiddetti teologi marxisti. Senza distinzione vennero perseguitati e brutalizzati religiosi, fedeli laici, catechisti, suore impegnate nelle villas miseria , le baraccopoli. «I militari erano incapaci di sottigliezze – spiega Scannone –. Per loro parlare di liberazione oppure di opzione preferenziale per i poveri si traduceva in una sola parola: comunismo. Personalmente non ho mai avuto niente a che fare con il marxismo, eppure mi consideravano un comunista. Perfino il futuro cardinale Eduardo Francisco Pironio, per cui è in corso la causa di beatificazione, era indicato dai servizi segreti come alto esponente della “chiesa rossa”».
Ma qual era la specificità della teologia della liberazione propugnata da Scannone? «La differenza – risponde padre Juan Carlos – è che qui in Argentina non sono mai state utilizzate né la metodologia marxista dell’analisi della realtà, né altre categorie importate dal marxismo. Al contrario, promuoviamo ancora la rivalutazione della cultura e della religiosità popolare. Da qui la definizione di teología del pueblo. Il popolo, dunque, diventa portatore di valori culturali che attraverso la religiosità popolare alimentano l’inculturazione della fede. E questo accade tanto nei fedeli quanto nell’intero popolo latinoamericano. Insomma, questa corrente teologica preferisce l’analisi storico-culturale a quella socio-strutturale tipica della teologia della liberazione».
Scannone quindi racconta come il regime teneva d’occhio lui e i suoi colleghi e confratelli. «La polizia si aggirava spesso qui intorno, non certo perché le stesse a cuore la sicurezza del Collegio. Una volta arrivarono di notte, sarà stata la fine del ’77. Superarono la cancellata e con le camionette circondarono l’edificio. Fu una vera irruzione. Ricordo ancora il rimbombo dei loro passi lungo i corridoi. Era buio e non riuscii a vedere in quanti erano. Ma dal fracasso che facevano percorrendo il Collegio con quegli stivali di cuoio, immagino fossero almeno un plotone di una ventina di persone, più altri che sorvegliavano dall’esterno. Avevamo il cuore in gola. Dal modo con cui irruppero, immaginai che l’esercito avesse ricevuto l’ordine di compiere una retata. Mi sentii nel mirino. Sono venuti a prendermi, pensai».
Perché proprio lui? «Ero considerato un esponente della teologia della liberazione, corrente che il regime percepiva come fumo negli occhi. Bergoglio mi fece capire in ogni modo che correvo dei pericoli. Pur trovandoci su posizioni teologicamente differenti, ma non direi così distanti, mai egli volle che io fossi zittito. Neppure quando alcuni vescovi intervennero presso il padre provinciale segnalando come le mie posizioni fossero considerate scomode, per non dire disdicevoli. Ma padre Jorge mai mi chiese di mutare atteggiamento. Anzi mi spiegò come avrei potuto far arrivare fuori dall’Argentina il mio pensiero, aggirando la censura dei militari».
Bergoglio come reagì alla perquisizione? «Da capo carismatico – risponde padre Scannone –. Ci fece coraggio, tranquillizzò ciascuno e intimò ai militari di tornarsene da dove erano venuti. Loro non avevano diritto di star lì e meno che mai di starci in quel modo. Sapeva che non sarebbero tornati indietro, ma si pose in modo da esigere rispetto, perché nel Collegio non c’era proprio nulla da cercare. Lo fece con tono deciso, ma non provocatorio. Quello era un tempo senza legge. Bisognava evitare di fornire un qualsiasi pretesto all’esercito. Quando uscimmo dalle stanze per vedere che cosa stava succedendo, notammo che i militari avevano assunto un atteggiamento meno marziale. C’erano anche alcuni giovani che ci erano stati presentati dal provinciale come studenti in “ritiro spirituale”. In realtà ci abbiamo messo più di vent’anni a conoscere fino in fondo la verità sulle azioni di salvataggio del padre Jorge». Scannone ritiene che lo scopo del blitz fosse intimidatorio. «Vale a dire: vi teniamo sempre d’occhio fuori da qui, ma possiamo anche entrare in casa vostra come e quando vogliamo. Tuttavia, sarebbe bastato trovare sulla scrivania di qualcuno di noi un libro o un riferimento a Marx, una rivista “sospetta” o altra letteratura considerata di sinistra, perché quella notte le cose prendessero un’altra piega». «In che modo padre Bergoglio la salvaguardò dalla giunta militare? » chiedo a padre Juan Carlos. «Per la verità lui mi protesse anche da certi vescovi – dichiara il teologo –. Non erano anni facili. Padre Jorge si prese cura di noi com’era, del resto, suo dovere. Da superiore provinciale dei gesuiti la sua prima responsabilità era la protezione di ciascun gesuita. Non è perciò un caso se, al termine di quegli anni di mattanza, nessun gesuita è stato assassinato dalla dittatura. Anche se ora c’è chi vuole far passare questo fatto per una colpa. Oggi le cose possono essere osservate e giudicate con altri occhi, ma allora Bergoglio fece ciò che nella sua posizione andava fatto. Si rapportava frequentemente con il padre generale, che era al corrente di quanto avveniva, e offriva a noi consigli su come evitare guai, aggirare il pressante controllo del regime, senza però mai dover rinunciare alle nostre idee». Quali suggerimenti diede allora il padre Bergoglio a Scannone perché non finisse «risucchiato» in un campo di concentramento? «Il primo dei consigli fu quello di non spedire mai i miei articoli e i miei saggi attraverso l’ufficio postale di San Miguel e meno che mai da Buenos Aires. Lui sospettava che tutta la corrispondenza fosse controllata, così come le conversazioni telefoniche. Dunque, affinché i miei testi fossero pubblicati sulle riviste internazionali, era necessario che spedissi i messaggi da uffici postali lontani dalla capitale. In effetti i miei interventi non furono mai oggetto di censura preventiva da parte degli organismi di controllo della polizia politica. E in Europa le mie posizioni continuarono ad essere divulgate. Inoltre, quando mi recavo nei quartieri dove svolgevo la mia attività pastorale, il superiore provinciale mi consigliò di non andare mai in giro da solo, e non esclusivamente per ragioni di sicurezza. Dovevo fare in modo che a tutte le attività a cui partecipavo fossero sempre presenti dei testimoni. Così, se la polizia, l’esercito, la marina o l’aeronautica fossero venuti a prendermi, ci sarebbero stati testimoni. Questa era una delle modalità che Bergoglio ci suggeriva per evitare di sparire dalla circolazione, inghiottiti nel più fitto silenzio».
Come si è accennato, padre Bergoglio non disse nulla ai docenti e agli studenti del Collegio riguardo alla vera condizione dei giovani perseguitati accolti a San Miguel. «Questo aveva davvero dello straordinario. Noi non abbiamo mai ricevuto nessuna indicazione. Bergoglio diceva che i ragazzi capitati qui per dei periodi di permanenza erano in fase di discernimento vocazionale, oppure andavano accompagnati nei loro studi. Noi perciò credevamo che si trattasse di aiuto spirituale. Mai abbiamo sospettato che stesse conducendo operazioni “clandestine”».
Scannone ha scoperto solo di recente che invece quelli non erano giovani alla ricerca della propria vocazione. «Quando poi queste storie sono emerse, allora, parlando qui tra noi nella comunità dei gesuiti, abbiamo capito quale fosse la vera ragione di quella ospitalità. Ciò vuol dire che padre Bergoglio non solo mantenne il segreto allora, ma non ha mai voluto farsi vanto di quella sua particolarissima missione. Posso dire con certezza, senza ombra di dubbio, per esserne stato testimone diretto in plurime circostanze, che padre Bergoglio si adoperò non solo per proteggere, tutelare e salvare padri gesuiti e seminaristi, ma anche per nascondere giovani studenti finiti nel mirino della dittatura, i quali venivano portati nel nostro Collegio, con tutte le cautele del caso, allo scopo di tenerli al riparo dai rapimenti della polizia».
Forse l’allora provinciale dei gesuiti mantenne il massimo segreto perché temeva di non potersi fidare di nessuno? «Non era una questione di sfiducia nei confratelli gesuiti – risponde padre Juan Carlos –. Certamente egli voleva evitare che saltasse la copertura anche a causa di nostre possibili ingenuità. Erano anni di paura, ricordiamolo. Padre Bergoglio non poteva rischiare. Se uno dei gesuiti del Collegio fosse stato sequestrato dai militari, chi assicurava che il malcapitato non venisse sottoposto a torture per rivelare quell’attività segretissima? Per questa ragione andava mantenuto il più stretto riserbo. Inoltre, padre Jorge sapeva che in quella sua delicatissima missione avrebbe potuto esporre a pericoli ben più seri non solo singoli gesuiti ma l’intera compagnia in Argentina. Se i sicari di Videla avessero scoperto che i gesuiti di Buenos Aires, sotto la regia del loro superiore, operavano clandestinamente in attività contrarie al “Processo di riorganizzazione nazionale”, certamente vi sarebbero state conseguenze che solo oggi possiamo immaginare».
Infine, chiedo a padre Scannone quale opinione si sia fatto del caso di Yorio e Jalics, i due gesuiti rapiti, torturati e rilasciati dopo quasi sei mesi. «Padre Jalics ha smentito qualunque coinvolgimento di Bergoglio. Personalmente ne ero certo da anni. Di padre Orlando Yorio ero molto amico e talvolta collaboravamo sul piano teologico. Poiché Bergoglio abitava nella nostra casa a San Miguel proprio quando fecero sparire i due padri, egli mi raccontava quello che faceva e le informazioni che raccoglieva per riuscire a scoprire chi li avesse sequestrati e dove fossero imprigionati. Anche il vescovo vicario di zona, monsignor Mario Serra, ci informava delle sue indagini per ottenerne la liberazione. Posso testimoniare della preoccupazione e dell’impegno del padre provinciale per riportare in libertà entrambi. I militari negavano di averli arrestati, ma trapelò la notizia che erano rinchiusi nella Scuola di meccanica della Marina. Quando i carcerieri si resero conto che Jalics e Yorio erano innocenti, continuarono a trattenerli per mesi».
Forse i militari volevano usare quei due prigionieri come ostaggi per ammorbidire le posizioni dei gesuiti. «Può darsi, ma a mio avviso li trattennero in catene perché non sapevano come uscire da quella situazione – afferma padre Juan Carlos –. Bergoglio era riuscito ad avere informazioni precise e aveva messo con le spalle al muro i generali. Alla fine vennero rilasciati, ma in modo che non potessero dare indicazioni precise su chi li avesse trattenuti e torturati. Durante tutto il periodo di detenzione, entrambi sono rimasti sempre incappucciati e prima di essere liberati furono narcotizzati. Bisogna poi riconoscere che con l’aiuto del padre provinciale entrambi riuscirono a trovare riparo all’estero, per non incorrere in qualche nuova e più drammatica desaparición ».