Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  gennaio 03 Venerdì calendario

LA LISTA DI BERGOGLIO - PUNTATA N. 5

SERGIO E ANA GOBULIN -
«Spaccarono le porte. Gettarono tutto per aria. Dissero che cercavano armi». Se ne infischiarono della bambi­na piccola, di una famiglia che aveva il solo torto di lot­tare per i diritti e la dignità degli emarginati. Fu un’intimidazione. Alla polizia segreta non piaceva quell’idea di «liberazione» che si spingeva in ogni angolo della società, che penetrava nelle di­verse strutture: nella chiesa aperta verso il mondo, che coinvol­geva esperienze e personalità che tempo prima non si sarebbe­ro mai incontrate, nelle organizzazioni sindacali, nelle facoltà universitarie, nei quartieri di tutta l’Argentina.

La voce di Sergio e Ana Gobulin tradisce l’emozione di chi de­ve districare il filo spinato dei ricordi per ritrovarvi il senso di quello che è stato.

«Bergoglio, contrariamente a quanto alcuni vogliono far crede­re, era parte di questo clima di novità. Con i piedi ben piantati nella tradizione dei valori cristiani e lo sguardo che si spingeva lontano, più di quanto noi potessimo immaginare», dice Ser­gio.

Fu merito di quel sano realismo se padre Jorge riuscì a convin­cerli che, da morti, lui e la moglie non avrebbero potuto più con­tinuare nella loro missione. Raccontano di quel che fu senza rimpianti. Da trent’anni vivo­no in Italia, dopo una rocambolesca fuga da Buenos Aires. Non è stato facile ambientarsi in Friuli, da dove Sergio era partito coi genitori quand’era un marmocchio incosciente di quel che sa­rebbe stata la sua vita in terre remote e gravide di speranza.

Adesso che va per i settanta, Gobulin centellina parole e ricor­di, come si fa quando si vuole esser certi di voler mettere sulla bilancia della vita solo ciò che ha un peso. «Animato dalle spin­te post-conciliari, decisi di lasciare la provincia di Santa Fe per recarmi a studiare teologia nella capitale federale». Al Collegio dei gesuiti a San Miguel potevano accedere anche i laici. Sergio continua a raccontare: «Nell’anno 1970, ancora studente di teo­logia decido, per coerenza con le mie convinzioni, di andare a vivere in una villa miseria [baraccopoli, ndr] alla periferia di Bue­nos Aires. Con un gruppo sempre più numeroso di residenti del quartiere, ci impegniamo in diversi lavori: assistenza a famiglie poverissime che provenivano dall’interno del paese e delle na­zioni limitrofe, creazione di una scuola serale per l’alfabetizza­zione degli adulti, assistenza sanitaria, assistenza a ragazze ma­dri e altre opere di utilità sociale». Erano gli anni della speranza nella costruzione di una società più giusta, e questo, ricorda Gobulin, «comportava un’opzione preferenziale per gli emarginati». Voleva dire, prima di tutto, sta­re in mezzo a loro. È in quel periodo che conosce Bergoglio. Jorge non era ancora sacerdote. Verrà ordinato il 13 dicembre 1969, quattro giorni pri­ma di festeggiare il trentatreesimo compleanno. Intanto Sergio si guadagna da vivere lavorando come impiegato in uno dei cen­tri di ricerca della Compagnia. È qui che incontrerà la futura mo­glie. Ana faceva da maestra ai figli di alcuni insegnanti.

Da lì in avanti, l’amicizia tra padre Jorge e Gobulin percorrerà migliaia di chilometri. A Sergio capitò di accompagnare il futu­ro pontefice nei suoi viaggi in macchina all’interno del paese. Tra le distese sterminate della pampa, oppure attraversando le baraccopoli dimenticate, «non solo si parlava della missione della chiesa, dell’impegno dei cristiani, ma anche della situazione argentina, dei cambiamenti, delle speranze e delle difficoltà».

Nella villa miseria Sergio dava una mano a reperire il materia­le per costruire le case, riordinare le strade, aiutare le famiglie quando c’erano le inondazioni, scavare canali, costruire una re­te per l’acqua potabile e diverse strutture per la comunità. Nac­quero così una scuola per l’alfabetizzazione, un ambulatorio per l’assistenza medica di base, un centro per l’accompagna­mento delle ragazze madri. «In mezzo a grandi difficoltà, fra la gente c’era un clima di gioia. Organizzavamo serate di festa e ballo, alle quali partecipava gran parte della popolazione della “villa” per raccogliere i fondi ne­cessari ad acquistare il materiale. Ridevamo tra noi quando par­lavamo di “raccogliere soldi fra la gente che non ne ha”».

«Gli anni della dittatura sono stati anni di negazione assoluta di tutte le libertà: di pensiero, di parola, di informazione, di a­zione – ricorda Gobulin –. Anni di dura repressione contro quel­li che si opponevano alla giunta. Abbiamo reagito in tanti, so­prattutto giovani, convinti della necessità di contrastare questa negazione, che calpestava i diritti fondamentali della persona. Abbiamo agito nel nostro fare quotidiano, giorno dopo giorno. E per questo, tanti, più di trentamila, sono entrati nel “tunnel della sparizione” senza uscirne più».

Dall’abbecedario alla rivendicazione politica, il passo è breve. Nella villa miseria la gente cominciava a farsi sentire. Chiede­vano di non essere più trattati come cittadini di terza classe. An­che Bergoglio, una volta nominato provinciale dei gesuiti, vol­le conoscere più da vicino quelle realtà. «La prima volta si fermò con noi per alcuni giorni. Tornò in Collegio profondamente colpito da quell’esperienza».

Sergio e Ana si sposarono il 14 novembre 1975. La celebrazio­ne, in una parrocchia di quartiere, fu presieduta da padre Jorge. C’erano i genitori degli sposi, che per anni nasconderanno ge­losamente le foto delle nozze, un ricordo prezioso che non vo­levano cadesse nelle mani della polizia. Pochi giorni dopo essersi promessi eterno amore, si ritrovaro­no la casa messa a soqquadro dai militari. Gli sposini erano al cinema. Quando rientrarono, sembrava fosse passato un batta­glione di cingolati. «Non avevamo fatto niente di male, non possedevamo armi, non appartenevamo ad alcuna organizza­zione terroristica», dice Sergio. Con la moglie e i vicini del quartiere rimisero in ordine la casa. Continuarono come niente fosse avvenuto, certi che al termine della perquisizione gli agenti si fossero convinti che il loro im­pegno tra gli emarginati non celasse secondi fini.

Passa quasi un anno e l’11 ottobre 1976 Sergio Gobulin viene chupado («risucchiato»). Quella mattina aveva ottenuto un gior­no di permesso dal lavoro. Ne aveva bisogno per sistemare al­cune faccende di famiglia. Anche Ana era rimasta a casa. Anco­ra ventiquattro ore e le sarebbe scaduta la licenza per maternità. I cacciatori di dissidenti, mostrando un certo dilettantismo, non ne erano al corrente. L’operazione per poco non si concluse in un imbarazzante fallimento. Quando scoprirono che Sergio non era in ufficio, corsero a cercarlo nel quartiere. Lo incrociarono lungo la strada, non lontano dalla baracca.

Una gragnuola di pugni, un sacco di juta calato sulla testa, le mani legate dietro alla schiena. Lo portarono via senza dargli il tempo di reagire. Le colleghe di Ana, invece, fecero in tempo ad avvertirla. Uomini dall’atteggiamento inequivocabile si erano presentati nella scuola dove la ragazza insegnava. Riuscì a na­scondersi presso alcuni conoscenti, sfuggendo al peggio che po­tesse capitarle. Sergio no. Per diciotto giorni rimase in balia di sconosciuti che lo trasferirono più volte: carceri, abitazioni pri­vate, caserme, di nuovo carceri. Sempre le stesse domande: «Che fate nel quartiere? Chi fa parte del vostro gruppo di terroristi?». Ana andarono a cercarla dai genitori. Niente armi. Niente do­cumenti sospetti. Niente di niente. «E allora cosa volete?», do­mandò la madre. «Quelli che le armi ce le hanno nella testa», risposero.

Appena padre Jorge ne fu informato, fece scattare un’operazio­ne di salvataggio in due direzioni: strappare Sergio ai militari e mettere al sicuro Ana. Come di consueto, il gesuita cominciò a indagare in proprio. Chiedendo in giro. Guardandosi attorno. Si recò da alcuni ufficiali per sostenere la causa dei suoi amici. Dopo le solite peripezie, riuscì a tirar fuori Sergio.

«I diciotto giorni del mio sequestro – racconta Gobulin – furo­no davvero duri, sia per le torture fisiche che, soprattutto, per quelle psicologiche. Dopo la mia liberazione venni a cono­scenza, attraverso i miei familiari, degli sforzi compiuti per la mia ricerca e liberazione da parte di padre Jorge e dell’allora vi­ceconsole d’Italia in Argentina, Enrico Calamai».

Mille volte, durante quei giorni, quando aveva ormai perso la cognizione del tempo, Sergio aveva temuto di essere arrivato a fine corsa.

Il 29 ottobre era certo che sarebbe finita male. Gli diedero una ripassata, l’ennesima. In realtà, era l’«arrivederci» degli aguzzi­ni. In tre settimane non era mai riuscito a vederli in faccia. Ven­ne scaricato in strada, non lontano dalla casa dei suoceri, lega­to e bendato, così dolorante da non riuscire a rimettersi in pie­di.

Di tempo ne restava poco. Attraverso la nunziatura apostolica, Bergoglio fece interessare alla questione Enrico Calamai, l’eroi­co console italiano protagonista di centinaia di salvataggi.

«Dopo la mia liberazione, Calamai mi fece ricoverare all’Ospe­dale italiano di Buenos Aires insieme, per motivi di sicurezza, a mia moglie e a mia figlia. Io e Ana pensavamo che, una volta recuperato il mio stato di salute, ci saremmo allontanati dalla capitale».

In corsia ci rimasero più di un mese. Un giorno confidarono al­l’amico gesuita il loro piano: trasferirsi nell’entroterra argenti­no. Lontano dai militari, per poter ricominciare.

«È il tempo del coraggio. Qui i guai non sono finiti, né per voi né per l’Argentina. Vi cercheranno ancora. Ascoltatemi, lasciate il paese», li esortò padre Jorge. Sergio Gobulin ricorda: «Ci rac­contò dei vari tentativi fatti per ottenere la mia libertà e dimo­strare la mia innocenza, tentativi che avevano richiesto che egli incontrasse diverse personalità della gerarchia delle Forze ar­mate. Perciò ci ripeté di andare via. Sapeva che altri gruppi del­l’esercito mi stavano cercando». «Quando le mie condizioni di salute lo permisero, il dottor Ca­lamai ci accompagnò negli uffici competenti per la documen­tazione necessaria e mi pregò di fare una dichiarazione dell’ac­caduto, perché sarebbe stata utile al governo italiano per docu­mentare i casi di sequestro e scomparsa dei suoi cittadini».

Contattato per verificare questa ricostruzione, Calamai ha spie­gato di «non avere mai avuto a che fare direttamente con Ber­goglio. Il suo nome, anzi, in quegli anni non l’ho mai sentito». Dalla nunziatura, però, «mi arrivavano delle segnalazioni e non è escluso che quella dei Gobulin fosse tra esse». Sergio e la mo­glie raccontano di avere ricevuto un passaporto nuovo di zecca direttamente dal Consolato italiano, e i tre biglietti di sola an­data per l’Italia. Calamai li accompagnò a completare i documenti di espatrio: «Faceva persino la coda agli sportelli con noi. C’era la possibi­lità di un nuovo rapimento, ma in presenza di un diplomatico il rischio era molto minore», ricorda Sergio con tutta la gratitu­dine che si deve a un eroe come quello, capace di salvare centi­naia di vite fornendo un salvacondotto a chiunque glielo chie­desse. Un personaggio così avrebbe meritato, quantomeno, la promozione ai gradi superiori, perfino un seggio da senatore a vita. Invece, ci rimise la carriera.

Anche Jorge Bergoglio ha dovuto pagare un prezzo ai calunnia­tori di professione. Ed è questa l’unica ragione che ha convinto Sergio e Ana a rompere il patto del silenzio durato quasi qua­rant’anni. Una storia di cui non avevano mai voluto parlare a nessuno. Essi oggi affermano: «Lungi dall’entrare nella polemi­ca che ha coinvolto Bergoglio sul suo operato durante la ditta­tura; lungi dall’entrare a far parte di schieramenti a favore o con­tro, il nostro intento resta quello di rendere testimonianza pub­blica, quindi non solo personale, di quel periodo, che credia­mo vada al di là della figura di Bergoglio». Sergio e Ana preci­sano: «Non ci interessa farci pubblicità né approfittare dell’a­micizia con padre Jorge. L’uomo a cui dobbiamo la vita è di­ventato papa. E noi che lo abbiamo conosciuto da vicino non possiamo non vederci un disegno della Provvidenza».

Gli aguzzini che fecero affogare decine di migliaia di dissiden­ti nelle acque del Rio della Plata non erano amanti delle sotti­gliezze. L’equazione non ammetteva alternative: vivere tra i po­veri voleva dire essere «comunisti». Sergio e Ana intendevano la politica come impegno, come solidarietà, come difesa dei più deboli. Ma non bastò.

«Ricordo quando Jorge veniva nella mia baracca di lamiere e ter­ra battuta», rammenta Sergio. «Si fermava per alcuni giorni in ritiro spirituale. Era in quei momenti che si capiva che lui non era tipo da chiacchiere e letture teologiche sotto a un ventilato­re. Era un uomo di missione. I poveri li ascoltava, li osservava nella loro miseria e nei loro slanci. Si immergeva nella loro realtà, nella sofferenza delle persone, si calava nella profondità dei loro cuori, per poi risalire trasmettendo il suo messaggio di speranza».

Di queste sue visite ai baraccati, padre Jorge non parlava quasi con nessuno. «Vivevamo un grande momento di trasformazio­ne. Eravamo parte di una comunità che finalmente si rinnova­va. C’era un fermento che non potremo mai dimenticare», ri­cordano i coniugi, che nel luglio 2013 si sono recati da pelle­grini ad Aparecida, in Brasile, durante la Giornata mondiale del­la gioventù, per riabbracciare l’amico divenuto papa Francisco .

Sergio ripete ciò che vuole non si dimentichi: «Ho avuto la for­tuna di uscirne vivo. Ma è stato merito della testardaggine di per­sone importanti, che mi hanno cercato nelle varie caserme del­l’orrore. È in questo contesto che emerge la figura di Bergoglio». Tornare nel Cono Sur per loro è ogni volta un’esperienza del cuo­re. Impossibile cancellare quel che accadde il 17 gennaio 1977. Arrivarono sul molo di Buenos Aires. C’era anche padre Jorge, che osservava il piroscafo solcare il riflesso di un tramonto d’e­state. Una di quelle navi da cui i suoi genitori erano sbarcati in Argentina. Anche Sergio era arrivato nel «nuovo mondo» venti­sette anni prima, quand’era un bambino di quattro anni. «Sal­pata la nave, realizzammo che padre Jorge ci aveva salvato la vi­ta. Ci aveva anche dato del denaro per sostenere le spese di e­spatrio. Se non ci fosse stato lui, non saremmo qui a parlarne». La vita, a volte, si annida in un dettaglio. La macabra contabi­lità delle vite spiaggiate, dei sogni svaniti ad alta quota, avreb­be potuto essere perfino più crudele se non ci fossero stati quel­li come Bergoglio. «Oltre a “liberare” persone che erano scom­parse, o altri che rischiavano di sparire, padre Jorge ha salvato “in modo indiretto” tantissime altre vite. Questa affermazione – osserva Sergio Gobulin – non è il risultato di un ragionamento dimostrabile; ma di una convinzione maturata dopo la mia li­berazione ». È un ragionamento che porta lontano. «La dittatu­ra militare per realizzare ed estendere capillarmente il piano re­pressivo, voleva dalle loro vittime i racconti, i fatti, ma soprat­tutto “i nomi”. Strappare attraverso la tortura fisica, psicologica o anche drogando le vittime, i nomi di amici, dei compagni di lavoro, dei vicini di casa, era la prassi per compiere ulteriori spa­rizioni ». Il grado di resistenza variava da persona. C’era chi alla sola vista dei «ferri» vuotava il sacco, e chi prima di cedere si fa­ceva ridurre a brandelli. «È evidente che più tempo si trascorre­va nelle camere dell’orrore e più cedevano le barriere della sop­portazione ». Proprio per questo, tantissime persone sono state salvate «a loro insaputa» dall’impegno di Bergoglio. «Quando lui, come nel mio caso, riusciva a ridurre di settimane, se non di mesi, il tempo di permanenza in mano agli aguzzini, era mol­to probabile che questi non avessero ancora in mano i nomi che cercavano. Così decine di persone non sono state neanche sfio­rate dai militari solo perché si fece in tempo a non far circolare gli “episodi sospetti” che li riguardavano», dice Sergio.

Padre Jorge non smise mai di chiamare Sergio e Ana. Sei mesi dopo aver preso il mare verso l’Italia, Bergoglio volle vedere di persona come i Gobulin fossero riusciti a sistemarsi. Andò a tro­varli in Friuli. L’anno prima c’era stato il devastante terremoto nelle regioni del Nordest. Anche quando arrivò Bergoglio ci fu una scossa in pie­na notte. «Presi mia figlia e scappai fuori casa, mentre Sergio sve­gliò Jorge», ricorda Ana. Tra la folla in strada nessuno sapeva che l’ospite dei Gobulin fosse un prete. La gente, terrorizzata dalla devastazione dell’anno prima, cominciò a pregare nel buio, in­vocando la protezione del Creatore. Il gesuita argentino rimase colpito da tanta devozione, al punto che al mattino dopo volle essere accompagnato per le vie del paese e vedere da vicino quei fedeli così devoti. «Rivedemmo alcuni di loro. Tornati alla nor­malità, anziché pregare bestemmiavano». Bergoglio non si scom­pose. Preferì tacere e pregare per loro. Alcuni anni dopo, quando la famiglia Gobulin poté ritrovarsi ancora una volta con l’amico prete di Buenos Aires, lui rievocò quel breve soggiorno in Friuli. D’un tratto, con quell’espressio­ne sorniona che prelude a chissà quale trovata, domandò: «Lì nel vostro paese continuate a pregare sempre in quel modo?».

Sono molte le cose che Sergio e Ana non potranno mai scorda­re di padre Jorge. Come quando nel 1978, sei mesi dopo l’ad­dio all’Argentina, il provinciale andò a trovare la madre di Ser­gio, rimasta nel paese con il resto della famiglia. Le consegnò una busta. Dentro c’erano i soldi per un viaggio: «Va’ a trovare tuo figlio».
«Te queremos papa Francisco! Llenas de alegría nuestros co­razones! » («Ti amiamo, papa Francesco! Riempi di gioia i nostri cuori!»). Qualcuno ha visto il solito opportu­nismo politico nel tweet lanciato dal governatore di Córdoba pochi minuti dopo l’elezione di papa Francesco. José Manuel de la Sota è un esponente del Partito Giustizialista Argentino, ma dal 2011 si oppone al kirchnerismo e ha fondato una cor­rente peronista federale con altri governatori delle province.

Il suo entusiasmo è sincero. In effetti, de la Sota è in debito con Bergoglio. Uno di quei debiti che non si estinguono: «Mi ha sal­vato la vita, facendomi uscire di prigione». Tra Córdoba e i gesuiti scorre un affetto antico. La Manzana Je­suítica e le Estancias de Córdoba sono una ex missione costruita dalla Compagnia (dal 2000 patrimonio mondiale dell’umanità per l’Unesco). Nella Manzana Jesuítica , nel centro della città, tro­vano sede l’Università di Córdoba (una delle più antiche del Su­damerica), il Collegio Monserrat, una chiesa e altri edifici am­mirati ogni anno da migliaia di turisti. Il complesso, la cui fon­dazione risale al 1615, fu abbandonato dai gesuiti nel 1767, quando re Carlo III di Spagna ordinò la loro espulsione dal sub­continente. Il posto della Compagnia venne preso dai france­scani, che lo restituirono nel 1853, quando i gesuiti poterono tornare nelle Americhe.

L’importanza del ruolo delle missioni gesuitiche nella provin­cia di Córdoba è testimoniato da un dato: la strada delle Estan­cias, che collega palazzi, case e cappelle costruiti dalla Compa­gnia di Gesù, è lunga circa 250 chilometri. È questa la geografia del cuore nella quale è cresciuto de la So­ta, che a Córdoba ha frequentato il liceo presso l’Istituto del­l’Immacolata, prima di laurearsi in Legge e diventare un avvo­cato in carriera. Già all’inizio degli anni Settanta il futuro governatore (che per un breve periodo è stato anche ambasciatore d’Argentina in Bra­sile) ebbe a misurarsi con la polizia, quando veniva perseguito per il suo «proselitismo peronista». Il colpo di stato del ’76 fermò l’orologio della storia e il calendario di milioni di persone.

«Padre Jorge intervenne ripetutamente dopo che la mia fami­glia si era rivolta a lui raccontandogli cosa mi era accaduto». Il giovane José Manuel fu rapito dopo un raduno politico a Villa Cura Brochero, una cittadina in provincia di Córdoba. «Bergoglio riuscì a intercedere quando fui sequestrato dai mi­litari. Intervenne molte volte per farmi scarcerare», ha ricor­dato l’uomo politico. E non è per sentito dire che de la Sota parla di altri salvataggi: «Molti di noi hanno ricevuto il suo aiu­to caritatevole nei momenti difficili vissuti durante la dittatu­ra militare», assicura. «Vengo da una famiglia cattolica», ha ricordato, descrivendo la sua formazione giovanile. «Molti sacerdoti, e anche vescovi, a quel tempo fecero del bene correndo molti pericoli. Bergoglio era uno di questi e chi lo attacca compie un atto di viltà, perché tutti sanno quello che lui ha fatto per salvare decine di vite».

Di più, per ora, de la Sota non dice. Infatti non ha l’intenzione di rinfocolare polemiche, e neppure di apparire come uno dei tanti pronti a rifarsi il curriculum accampando una conoscenza diretta del papa.

«Credo che l’Argentina stia vivendo un momento molto speciale. Un prete di quartiere è divenuto papa, e a tutti noi sta dimo­strando quanto egli sia autenticamente umile, indicando un percorso per concepire e costruire una nuova umanità». Una co­sa, però, de la Sota non riesce proprio a non dirla.

A rischio di guadagnarsi inimicizie anche dentro al suo partito, scandisce una frase: «Quei pochi che parlano con malizia del papa dovrebbero vergognarsi».
Il percorso di questa seconda parte si conclude ritornando al­la lunga conversazione iniziale con il teologo Juan Carlos Scannone, il massimo esponente di quella che dagli anni Ot­tanta in poi è stata definita «teologia del popolo». Gesuita, poco più che ottantenne, ha in comune con i teologi della liberazio­ne la spinta per la giustizia sociale e il richiamo a un’economia fondata sull’etica. «In conformità con la dottrina sociale della chiesa», precisa. Per il resto non si rinvengono significative con­vergenze. I militari, invece, non andavano per il sottile. Popolo o no, per essi erano tutti «preti comunisti».

Oggi Scannone è direttore dell’Istituto di studi filosofici presso la facoltà di Teologia e Filosofia di San Miguel, la stessa di cui fu rettore Bergoglio tra il 1980 e il 1986. La prodigiosa memoria di padre Juan Carlos gli permette di compiere una lunga cavalcata a ritroso nella storia argentina, dalla riconquista della democra­zia agli albori della dittatura. «Come mai – gli domando, spe­rando di rompere un argine nel fiume della sua straordinaria sto­ria di uomo di fede – nonostante lei sia considerato l’esponente di punta di una corrente tanto avversata dalla giunta militare, non si ha notizia di persecuzioni contro di lei?».

«Perché non ne ho mai voluto parlare prima! Sono passati così tanti anni e non mi andava di alimentare dibattiti e polemiche sull’arcivescovo Bergoglio. Adesso che il mio amico Jorge è di­ventato papa Francisco, posso raccontare che sì, lui mi coprì le spal­le, mi salvò. E lo fece in svariate circostanze». Prima di tornare su questo argomento, Scannone ha voluto ri­cordare come conobbe il futuro papa. «Era mio studente di gre­co e letteratura. Con il tempo le parti si invertirono e padre Jor­ge diventò il mio padre spirituale, il mio rettore, poi il mio pro­vinciale. È naturale, dunque, che fossimo in confidenza. È sem­pre stato un uomo molto austero e di grande intelligenza anche nelle cose pratiche. Per esempio, guida bene. Quando era retto­re, rinunciò all’autista. Lo stesso fece quando divenne arcivesco­vo. È capace di fare più cose insieme. Dalle nostre parti quelli co­me lui li chiamiamo “uomini d’orchestra”, nel senso che sono capaci di suonare strumenti differenti». In una intervista all’ Os­servatore Romano, Scannone ricordò che una volta Bergoglio «scris­se un articolo a macchina, poi fece il bucato, quindi accolse un fedele per un colloquio di direzione spirituale». Anche in cucina dicono andasse forte. Il maialino ripieno «alla Bergoglio» è una pietanza che in Collegio ancora ricordano.

Come si è detto, la dittatura percepiva la teologia del popolo co­me una minaccia, nonostante la sua sostanziale diversità dai co­siddetti teologi marxisti. Senza distinzione vennero perseguita­ti e brutalizzati religiosi, fedeli laici, catechisti, suore impegnate nelle villas miseria , le baraccopoli. «I militari erano incapaci di sot­tigliezze – spiega Scannone –. Per loro parlare di liberazione op­pure di opzione preferenziale per i poveri si traduceva in una so­la parola: comunismo. Personalmente non ho mai avuto niente a che fare con il marxismo, eppure mi consideravano un comuni­sta. Perfino il futuro cardinale Eduardo Francisco Pironio, per cui è in corso la causa di beatificazione, era indicato dai servizi se­greti come alto esponente della “chiesa rossa”».

Ma qual era la specificità della teologia della liberazione propu­gnata da Scannone? «La differenza – risponde padre Juan Carlos – è che qui in Argentina non sono mai state utilizzate né la me­todologia marxista dell’analisi della realtà, né altre categorie im­portate dal marxismo. Al contrario, promuoviamo ancora la ri­valutazione della cultura e della religiosità popolare. Da qui la definizione di teología del pueblo. Il popolo, dunque, diventa por­tatore di valori culturali che attraverso la religiosità popolare ali­mentano l’inculturazione della fede. E questo accade tanto nei fedeli quanto nell’intero popolo latinoamericano. Insomma, que­sta corrente teologica preferisce l’analisi storico-culturale a quel­la socio-strutturale tipica della teologia della liberazione».

Scannone quindi racconta come il regime teneva d’occhio lui e i suoi colleghi e confratelli. «La polizia si aggirava spesso qui in­torno, non certo perché le stesse a cuore la sicurezza del Colle­gio. Una volta arrivarono di notte, sarà stata la fine del ’77. Su­perarono la cancellata e con le camionette circondarono l’edifi­cio. Fu una vera irruzione. Ricordo ancora il rimbombo dei loro passi lungo i corridoi. Era buio e non riuscii a vedere in quanti erano. Ma dal fracasso che facevano percorrendo il Collegio con quegli stivali di cuoio, immagino fossero almeno un plotone di una ventina di persone, più altri che sorvegliavano dall’esterno. Avevamo il cuore in gola. Dal modo con cui irruppero, immagi­nai che l’esercito avesse ricevuto l’ordine di compiere una retata. Mi sentii nel mirino. Sono venuti a prendermi, pensai».

Perché proprio lui? «Ero considerato un esponente della teolo­gia della liberazione, corrente che il regime percepiva come fu­mo negli occhi. Bergoglio mi fece capire in ogni modo che cor­revo dei pericoli. Pur trovandoci su posizioni teologicamente dif­ferenti, ma non direi così distanti, mai egli volle che io fossi zit­tito. Neppure quando alcuni vescovi intervennero presso il pa­dre provinciale segnalando come le mie posizioni fossero consi­derate scomode, per non dire disdicevoli. Ma padre Jorge mai mi chiese di mutare atteggiamento. Anzi mi spiegò come avrei po­tuto far arrivare fuori dall’Argentina il mio pensiero, aggirando la censura dei militari».

Bergoglio come reagì alla perquisizione? «Da capo carismatico – risponde padre Scannone –. Ci fece coraggio, tranquillizzò cia­scuno e intimò ai militari di tornarsene da dove erano venuti. Lo­ro non avevano diritto di star lì e meno che mai di starci in quel modo. Sapeva che non sarebbero tornati indietro, ma si pose in modo da esigere rispetto, perché nel Collegio non c’era proprio nulla da cercare. Lo fece con tono deciso, ma non provocatorio. Quello era un tempo senza legge. Bisognava evitare di fornire un qualsiasi pretesto all’esercito. Quando uscimmo dalle stanze per vedere che cosa stava succedendo, notammo che i militari ave­vano assunto un atteggiamento meno marziale. C’erano anche alcuni giovani che ci erano stati presentati dal provinciale come studenti in “ritiro spirituale”. In realtà ci abbiamo messo più di vent’anni a conoscere fino in fondo la verità sulle azioni di sal­vataggio del padre Jorge». Scannone ritiene che lo scopo del blitz fosse intimidatorio. «Va­le a dire: vi teniamo sempre d’occhio fuori da qui, ma possiamo anche entrare in casa vostra come e quando vogliamo. Tuttavia, sarebbe bastato trovare sulla scrivania di qualcuno di noi un li­bro o un riferimento a Marx, una rivista “sospetta” o altra lette­ratura considerata di sinistra, perché quella notte le cose pren­dessero un’altra piega». «In che modo padre Bergoglio la salvaguardò dalla giunta mili­tare? » chiedo a padre Juan Carlos. «Per la verità lui mi protesse anche da certi vescovi – dichiara il teologo –. Non erano anni fa­cili. Padre Jorge si prese cura di noi com’era, del resto, suo dove­re. Da superiore provinciale dei gesuiti la sua prima responsabi­lità era la protezione di ciascun gesuita. Non è perciò un caso se, al termine di quegli anni di mattanza, nessun gesuita è stato as­sassinato dalla dittatura. Anche se ora c’è chi vuole far passare que­sto fatto per una colpa. Oggi le cose possono essere osservate e giudicate con altri occhi, ma allora Bergoglio fece ciò che nella sua posizione andava fatto. Si rapportava frequentemente con il padre generale, che era al corrente di quanto avveniva, e offriva a noi consigli su come evitare guai, aggirare il pressante control­lo del regime, senza però mai dover rinunciare alle nostre idee». Quali suggerimenti diede allora il padre Bergoglio a Scannone perché non finisse «risucchiato» in un campo di concentramen­to? «Il primo dei consigli fu quello di non spedire mai i miei ar­ticoli e i miei saggi attraverso l’ufficio postale di San Miguel e me­no che mai da Buenos Aires. Lui sospettava che tutta la corri­spondenza fosse controllata, così come le conversazioni telefo­niche. Dunque, affinché i miei testi fossero pubblicati sulle rivi­ste internazionali, era necessario che spedissi i messaggi da uffi­ci postali lontani dalla capitale. In effetti i miei interventi non fu­rono mai oggetto di censura preventiva da parte degli organismi di controllo della polizia politica. E in Europa le mie posizioni continuarono ad essere divulgate. Inoltre, quando mi recavo nei quartieri dove svolgevo la mia attività pastorale, il superiore pro­vinciale mi consigliò di non andare mai in giro da solo, e non e­sclusivamente per ragioni di sicurezza. Dovevo fare in modo che a tutte le attività a cui partecipavo fossero sempre presenti dei te­stimoni. Così, se la polizia, l’esercito, la marina o l’aeronautica fossero venuti a prendermi, ci sarebbero stati testimoni. Questa era una delle modalità che Bergoglio ci suggeriva per evitare di sparire dalla circolazione, inghiottiti nel più fitto silenzio».

Come si è accennato, padre Bergoglio non disse nulla ai docen­ti e agli studenti del Collegio riguardo alla vera condizione dei giovani perseguitati accolti a San Miguel. «Questo aveva davvero dello straordinario. Noi non abbiamo mai ricevuto nessuna in­dicazione. Bergoglio diceva che i ragazzi capitati qui per dei pe­riodi di permanenza erano in fase di discernimento vocaziona­le, oppure andavano accompagnati nei loro studi. Noi perciò cre­devamo che si trattasse di aiuto spirituale. Mai abbiamo sospet­tato che stesse conducendo operazioni “clandestine”».

Scannone ha scoperto solo di recente che invece quelli non e­rano giovani alla ricerca della propria vocazione. «Quando poi queste storie sono emerse, allora, parlando qui tra noi nella co­munità dei gesuiti, abbiamo capito quale fosse la vera ragione di quella ospitalità. Ciò vuol dire che padre Bergoglio non so­lo mantenne il segreto allora, ma non ha mai voluto farsi van­to di quella sua particolarissima missione. Posso dire con cer­tezza, senza ombra di dubbio, per esserne stato testimone di­retto in plurime circostanze, che padre Bergoglio si adoperò non solo per proteggere, tutelare e salvare padri gesuiti e seminari­sti, ma anche per nascondere giovani studenti finiti nel miri­no della dittatura, i quali venivano portati nel nostro Collegio, con tutte le cautele del caso, allo scopo di tenerli al riparo dai rapimenti della polizia».

Forse l’allora provinciale dei gesuiti mantenne il massimo segre­to perché temeva di non potersi fidare di nessuno? «Non era u­na questione di sfiducia nei confratelli gesuiti – risponde padre Juan Carlos –. Certamente egli voleva evitare che saltasse la co­pertura anche a causa di nostre possibili ingenuità. Erano anni di paura, ricordiamolo. Padre Bergoglio non poteva rischiare. Se uno dei gesuiti del Collegio fosse stato sequestrato dai militari, chi assicurava che il malcapitato non venisse sottoposto a tortu­re per rivelare quell’attività segretissima? Per questa ragione an­dava mantenuto il più stretto riserbo. Inoltre, padre Jorge sape­va che in quella sua delicatissima missione avrebbe potuto e­sporre a pericoli ben più seri non solo singoli gesuiti ma l’intera compagnia in Argentina. Se i sicari di Videla avessero scoperto che i gesuiti di Buenos Aires, sotto la regia del loro superiore, o­peravano clandestinamente in attività contrarie al “Processo di riorganizzazione nazionale”, certamente vi sarebbero state con­seguenze che solo oggi possiamo immaginare».

Infine, chiedo a padre Scannone quale opinione si sia fatto del caso di Yorio e Jalics, i due gesuiti rapiti, torturati e rilasciati do­po quasi sei mesi. «Padre Jalics ha smentito qualunque coinvol­gimento di Bergoglio. Personalmente ne ero certo da anni. Di pa­dre Orlando Yorio ero molto amico e talvolta collaboravamo sul piano teologico. Poiché Bergoglio abitava nella nostra casa a San Miguel proprio quando fecero sparire i due padri, egli mi rac­contava quello che faceva e le informazioni che raccoglieva per riuscire a scoprire chi li avesse sequestrati e dove fossero impri­gionati. Anche il vescovo vicario di zona, monsignor Mario Ser­ra, ci informava delle sue indagini per ottenerne la liberazione. Posso testimoniare della preoccupazione e dell’impegno del pa­dre provinciale per riportare in libertà entrambi. I militari nega­vano di averli arrestati, ma trapelò la notizia che erano rinchiusi nella Scuola di meccanica della Marina. Quando i carcerieri si re­sero conto che Jalics e Yorio erano innocenti, continuarono a trattenerli per mesi».

Forse i militari volevano usare quei due prigionieri come ostaggi per ammorbidire le posizioni dei gesuiti. «Può darsi, ma a mio avviso li trattennero in catene perché non sapevano come u­scire da quella situazione – afferma padre Juan Carlos –. Ber­goglio era riuscito ad avere informazioni precise e aveva mes­so con le spalle al muro i generali. Alla fine vennero rilasciati, ma in modo che non potessero dare indicazioni precise su chi li avesse trattenuti e torturati. Durante tutto il periodo di de­tenzione, entrambi sono rimasti sempre incappucciati e prima di essere liberati furono narcotizzati. Bisogna poi riconoscere che con l’aiuto del padre provinciale entrambi riuscirono a tro­vare riparo all’estero, per non incorrere in qualche nuova e più drammatica desaparición ».