Laura Anello, La Stampa 31/12/2013, 31 dicembre 2013
«HO VISTO RUBARE UN CARAVAGGIO E NESSUNO MI INTERROGA»
La testimone mai ascoltata di uno dei più celebri furti d’arte della Storia è una preside sessantenne dalla memoria di ferro e dagli occhi pieni di divertito disincanto. «La più grande esplosione di rabbia di mia zia? Quando i giornali scrissero che la Natività di Caravaggio era custodita da due vecchiette. Lei, 50 anni, era una specie di corazziere, atletica, imponente, una donna che non aveva paura di niente. Quando sentiva rumori sospetti, scendeva da casa ad affrontare chiunque, da sola».
Quella notte tra il 17 e il 18 ottobre 1969, però, Emilia Gelfo, custode insieme con la sorella Maria dell’Oratorio di San Lorenzo, a Palermo, disse di non aver sentito nulla. Le sue parole rimasero negli atti di polizia e magistratura che da decenni cercano il capolavoro dipinto da Caravaggio in fuga nel 1609, districandosi tra falsi allarmi, piste che portano a collezionisti internazionali, valanghe di dichiarazioni di pentiti di mafia che tutto e il contrario di tutto hanno raccontato: la tela usata come vessillo di potere, calpestata a mo’ di scendiletto, mangiata da ratti e maiali. Ma lei, Antonella Lampone, la figlia di Maria e nipote di Emilia, non è mai stata ascoltata.
E di cose da raccontare, lei che allora aveva quindici anni, ne ha parecchie. Ludovico Gippetto, che con la sua associazione Extroart dà la caccia alle opere rubate con tanto di cartelli «Wanted» sui muri della città e sul web, quando l’ha scovata è saltato in aria. Era davvero lei l’ultima testimone di quel furto-rebus?
Proprio così. E il suo racconto dà i brividi, nei giorni in cui all’Oratorio di San Lorenzo, come ogni anno, l’associazione Amici dei Musei siciliani celebra quella Natività invocandone il ritorno. «Mi ricordo di quel giorno come se fosse oggi – racconta lei, nel suo soggiorno di un bel palazzo nel centro di Palermo – io abitavo con mia madre e mia zia nel piccolo alloggio sopra l’oratorio. Tre stanze scomodissime, gelide, per raggiungere il bagno dovevi uscire all’aperto. La confraternita di San Lorenzo, ormai quasi estinta, lo aveva concesso in uso a mio nonno, tornato dalla guerra. Morto lui, era rimasto alle due figlie: mia zia nubile, che portava a casa il suo stipendio da impiegata, e mia madre, casalinga e vedova».
Per i superstiziosi quel 17 ottobre fatale era venerdì. Venerdì 17. «Una serata da lupi - racconta - pioggia a catinelle, lampi e fulmini. L’indomani mattina non era venuto nessuno a visitare l’oratorio. Nel primo pomeriggio mia madre era scesa a pulirlo, in vista della messa dell’indomani. Spazzava, con lo sguardo in basso, quando si accorse che i candelabri dell’altare erano tutti a terra. Pensò che la sorella avesse cominciato a fare pulizie straordinarie, ma poi alzò gli occhi sul muro e si mise a urlare. Ero a casa, mi precipitai e vidi l’inimmaginabile. La cornice era vuota, la balaustra di marmo ai piedi dell’altare piena della polvere che si era staccata con il taglio della tela. Erano entrati dalla finestrella, allora il piano della strada era più elevato di ora: saltare era uno scherzo da ragazzi. Poi erano saliti sulla scaletta dietro l’altare e avevano tagliato la tela, lungo tutta la cornice».
Da lì a poche ore fu una processione di autorità. Il soprintendente Vincenzo Scuderi («Già, qui c’era il Caravaggio!»); il prefetto Giovanni Ravalli («Non sapevo che a Palermo ci fosse quest’opera»); il sacerdote dell’oratorio, don Benedetto Rocco («Non funzionano neanche i fermi della finestra, come facevo a custodirlo?»). Testimonianze di abbandono e di inconsapevolezza registrate fra gli altri dal cronista del giornale «L’Ora» Mauro De Mauro, che sarebbe stato rapito il 16 settembre dell’anno successivo, in un intreccio di mafia e servizi segreti. Sparito nel nulla come il Caravaggio. «Nessuno però - racconta adesso Antonella Lampone - prese le impronte digitali che erano state lasciate sulla polvere, nonostante mia madre e mia zia non facessero che chiederlo. Tre giorni dopo, si accorsero che dallo sgabuzzino era sparito il gigantesco tappeto che si stendeva in oratorio una volta all’anno, nel giorno di San Lorenzo».
Il Caravaggio, con ogni probabilità, fu avvolto lì, anche se l’importante dettaglio è del tutto inedito. La polizia, nei giorni e nei mesi successivi, fece la spola per portare alle due custodi album pieni di fotografie segnaletiche. «Mia madre e mia zia non riconobbero nessuno, la zia però disse che nei giorni precedenti al furto aveva visto tra i visitatori molti palermitani, quando di solito c’erano soprattutto turisti».
Quel che seguì ha dell’incredibile. «I furti continuarono: sparì il putto della fontana del cortile, rubarono parti delle decorazioni di Serpotta. Mia zia una volta fu picchiata, narcotizzata, legata». Per tutta la vita le due donne sperarono di ritrovare il quadro. «Non lo dimenticarono mai, lo piansero fin sul letto di morte».
La testimone mai ascoltata di uno dei più celebri furti d’arte della Storia è una preside sessantenne dalla memoria di ferro e dagli occhi pieni di divertito disincanto. «La più grande esplosione di rabbia di mia zia? Quando i giornali scrissero che la Natività di Caravaggio era custodita da due vecchiette. Lei, 50 anni, era una specie di corazziere, atletica, imponente, una donna che non aveva paura di niente. Quando sentiva rumori sospetti, scendeva da casa ad affrontare chiunque, da sola».
Quella notte tra il 17 e il 18 ottobre 1969, però, Emilia Gelfo, custode insieme con la sorella Maria dell’Oratorio di San Lorenzo, a Palermo, disse di non aver sentito nulla. Le sue parole rimasero negli atti di polizia e magistratura che da decenni cercano il capolavoro dipinto da Caravaggio in fuga nel 1609, districandosi tra falsi allarmi, piste che portano a collezionisti internazionali, valanghe di dichiarazioni di pentiti di mafia che tutto e il contrario di tutto hanno raccontato: la tela usata come vessillo di potere, calpestata a mo’ di scendiletto, mangiata da ratti e maiali. Ma lei, Antonella Lampone, la figlia di Maria e nipote di Emilia, non è mai stata ascoltata.
E di cose da raccontare, lei che allora aveva quindici anni, ne ha parecchie. Ludovico Gippetto, che con la sua associazione Extroart dà la caccia alle opere rubate con tanto di cartelli «Wanted» sui muri della città e sul web, quando l’ha scovata è saltato in aria. Era davvero lei l’ultima testimone di quel furto-rebus?
Proprio così. E il suo racconto dà i brividi, nei giorni in cui all’Oratorio di San Lorenzo, come ogni anno, l’associazione Amici dei Musei siciliani celebra quella Natività invocandone il ritorno. «Mi ricordo di quel giorno come se fosse oggi – racconta lei, nel suo soggiorno di un bel palazzo nel centro di Palermo – io abitavo con mia madre e mia zia nel piccolo alloggio sopra l’oratorio. Tre stanze scomodissime, gelide, per raggiungere il bagno dovevi uscire all’aperto. La confraternita di San Lorenzo, ormai quasi estinta, lo aveva concesso in uso a mio nonno, tornato dalla guerra. Morto lui, era rimasto alle due figlie: mia zia nubile, che portava a casa il suo stipendio da impiegata, e mia madre, casalinga e vedova».
Per i superstiziosi quel 17 ottobre fatale era venerdì. Venerdì 17. «Una serata da lupi - racconta - pioggia a catinelle, lampi e fulmini. L’indomani mattina non era venuto nessuno a visitare l’oratorio. Nel primo pomeriggio mia madre era scesa a pulirlo, in vista della messa dell’indomani. Spazzava, con lo sguardo in basso, quando si accorse che i candelabri dell’altare erano tutti a terra. Pensò che la sorella avesse cominciato a fare pulizie straordinarie, ma poi alzò gli occhi sul muro e si mise a urlare. Ero a casa, mi precipitai e vidi l’inimmaginabile. La cornice era vuota, la balaustra di marmo ai piedi dell’altare piena della polvere che si era staccata con il taglio della tela. Erano entrati dalla finestrella, allora il piano della strada era più elevato di ora: saltare era uno scherzo da ragazzi. Poi erano saliti sulla scaletta dietro l’altare e avevano tagliato la tela, lungo tutta la cornice».
Da lì a poche ore fu una processione di autorità. Il soprintendente Vincenzo Scuderi («Già, qui c’era il Caravaggio!»); il prefetto Giovanni Ravalli («Non sapevo che a Palermo ci fosse quest’opera»); il sacerdote dell’oratorio, don Benedetto Rocco («Non funzionano neanche i fermi della finestra, come facevo a custodirlo?»). Testimonianze di abbandono e di inconsapevolezza registrate fra gli altri dal cronista del giornale «L’Ora» Mauro De Mauro, che sarebbe stato rapito il 16 settembre dell’anno successivo, in un intreccio di mafia e servizi segreti. Sparito nel nulla come il Caravaggio. «Nessuno però - racconta adesso Antonella Lampone - prese le impronte digitali che erano state lasciate sulla polvere, nonostante mia madre e mia zia non facessero che chiederlo. Tre giorni dopo, si accorsero che dallo sgabuzzino era sparito il gigantesco tappeto che si stendeva in oratorio una volta all’anno, nel giorno di San Lorenzo».
Il Caravaggio, con ogni probabilità, fu avvolto lì, anche se l’importante dettaglio è del tutto inedito. La polizia, nei giorni e nei mesi successivi, fece la spola per portare alle due custodi album pieni di fotografie segnaletiche. «Mia madre e mia zia non riconobbero nessuno, la zia però disse che nei giorni precedenti al furto aveva visto tra i visitatori molti palermitani, quando di solito c’erano soprattutto turisti».
Quel che seguì ha dell’incredibile. «I furti continuarono: sparì il putto della fontana del cortile, rubarono parti delle decorazioni di Serpotta. Mia zia una volta fu picchiata, narcotizzata, legata». Per tutta la vita le due donne sperarono di ritrovare il quadro. «Non lo dimenticarono mai, lo piansero fin sul letto di morte».
La testimone mai ascoltata di uno dei più celebri furti d’arte della Storia è una preside sessantenne dalla memoria di ferro e dagli occhi pieni di divertito disincanto. «La più grande esplosione di rabbia di mia zia? Quando i giornali scrissero che la Natività di Caravaggio era custodita da due vecchiette. Lei, 50 anni, era una specie di corazziere, atletica, imponente, una donna che non aveva paura di niente. Quando sentiva rumori sospetti, scendeva da casa ad affrontare chiunque, da sola».
Quella notte tra il 17 e il 18 ottobre 1969, però, Emilia Gelfo, custode insieme con la sorella Maria dell’Oratorio di San Lorenzo, a Palermo, disse di non aver sentito nulla. Le sue parole rimasero negli atti di polizia e magistratura che da decenni cercano il capolavoro dipinto da Caravaggio in fuga nel 1609, districandosi tra falsi allarmi, piste che portano a collezionisti internazionali, valanghe di dichiarazioni di pentiti di mafia che tutto e il contrario di tutto hanno raccontato: la tela usata come vessillo di potere, calpestata a mo’ di scendiletto, mangiata da ratti e maiali. Ma lei, Antonella Lampone, la figlia di Maria e nipote di Emilia, non è mai stata ascoltata.
E di cose da raccontare, lei che allora aveva quindici anni, ne ha parecchie. Ludovico Gippetto, che con la sua associazione Extroart dà la caccia alle opere rubate con tanto di cartelli «Wanted» sui muri della città e sul web, quando l’ha scovata è saltato in aria. Era davvero lei l’ultima testimone di quel furto-rebus?
Proprio così. E il suo racconto dà i brividi, nei giorni in cui all’Oratorio di San Lorenzo, come ogni anno, l’associazione Amici dei Musei siciliani celebra quella Natività invocandone il ritorno. «Mi ricordo di quel giorno come se fosse oggi – racconta lei, nel suo soggiorno di un bel palazzo nel centro di Palermo – io abitavo