Francesca Paci, La Stampa 31/12/2013, 31 dicembre 2013
«QUI SPARANO, ABBIAMO PAURA. L’ITALIA CI AIUTI A TORNARE A CASA»
Viviamo alla giornata e sono giornate una più dura dell’altra, con la pena che portiamo nel cuore non avremmo certo immaginato di svegliarci con gli spari per le strade e la raccomandazione di restare in casa», racconta al telefono da Kinshasa Paola Nota. In realtà nè lei né il marito Corrado se ne vanno granché in giro per la capitale congolese, dove erano atterrati il 18 novembre convinti di restare il tempo necessario a sbrigare le pratiche di routine con l’orfanotrofio e portarsi il piccolo Julien a Airasca, vicino Torino: «Siamo bloccati qui, i nostri visti sono scaduti il 17 dicembre e non ci avventuriamo fuori da soli, nel quartiere dove abitiamo la situazione è tranquilla ma la nostra non lo è affatto, non abbiamo ancora deciso se rientrare in Italia».
Ieri mattina, mentre un commando di ribelli capitanati dal pastore evangelico Paul Joseph Mukungubila detto Gideon occupava l’aeroporto N’Djili, la tv di Stato «Rtnc» e la base militare di Tshatshi, il limbo nel quale sono sospese le 24 famiglie italiane in attesa del via libera per l’adozione si è trasformato in un potenziale inferno. Sebbene in serata il governo del presidente Kabila abbia annunciato il ritorno alla calma, liquidando con una settantina di morti il maldestro tentativo di golpe, i nostri connazionali non sono andati a letto a cuor leggero.
«Siamo nella zona delle ambasciate, lontano dai disordini, praticamente non ci siamo accorti di nulla, stiamo bene se si può star bene in questo appartamento dove, insieme a un’altra coppia e ai nostri bambini, aspettiamo di capire cosa ci riservi il futuro» ci spiega, con la pazienza di chi l’ha fatto a oltranza, la trevigiana Francesca Morandin. Da quando dieci giorni fa il ministro dell’interno congolese Mangez ha annunciato la sospensione delle adozioni internazionali per timore che una volta all’estero i bambini potessero essere «venduti a coppie omosessuali», Francesca e Marco sanno che avere le carte in regola per diventare genitori potrebbe non bastare. La fragilità di Kabila, sfidato internamente dal suo ex rivale alle presidenziali del 2006 e profeta di un fantomatico rinascimento africano, rischia di allontanare la soluzione. La Repubblica democratica del Congo insomma, con le sue preziose miniere di cobalto ma anche con una povertà endemica che annovera nella sola capitale 25mila bambini soli e homeless, potrebbe avere nei prossimi mesi altre priorità.
L’Unità di crisi della Farnesina che, come Washington, ha chiesto ai connazionali di restare in casa, monitora notte e giorno. Il ministro degli Esteri Emma Bonino promette che non desisterà e Palazzo Chigi annuncia l’imminente arrivo a Roma di una missione di funzionari congolesi «per avviare le verifiche, che richiederanno inevitabilmente qualche tempo». Solo che, come ha scritto sabato mamma Roberta al premier Letta, le speranze delle aspiranti famiglie si sono assottigliate dopo l’infruttuosa visita a Kinshasa della delegazione italiana. Come spiegare adesso alla ignara Elisabeth che mamma Roberta ripartirà per l’Italia senza di lei?
«Siamo spaventati dalle notizie, è ovvio, credo che torneranno la settimana prossima ma senza il bambino, non ci resta che pregare il Signore», ammette con voce cupa la madre ultrasettantenne di Andrea Minocchi. Lui ha chiamato Macerata ieri mattina per lanciare un Sos insieme alla moglie Michela Gentili. «Ci hanno comunicato che le adozioni sono chiuse almeno fino a settembre 2014, aiuto...», avrebbe detto Andrea, che da due mesi vive con Michela e il piccolo di 2 anni in una struttura religiosa. Dopo l’assalto dell’aeroporto i voli internazionali sono stati sospesi, ma il punto è che molte delle 24 coppie non hanno comunque intenzione di lasciare in Congo i propri figli.
«Crediamo che l’Italia possa fare di più, crediamo che il Papa possa intervenire», ripetono a Radio Vaticana Massimo e Roberta De Toma. Altri due, il medico aquilano Luca Aloisio e la moglie Giulia, intervistati da «RaiNews24», incalzano: «Siamo venuti qui perché il nostro governo ci ha autorizzato e adesso il Congo ci caccia: come lo raccontiamo ai bimbi di 2 e 4 anni che dopo due mesi insieme fanno parte di noi?». Molti dei piccoli, come Julien, sono nati in zone estreme, tipo il confine col Burundi, e non hanno visto altro che guerra.