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 2013  dicembre 31 Martedì calendario

PAVEL, IL MUJAHEDDIN BIONDO CONQUISTATO DALLA GUERRA SANTA

Pasha, figliolo, ti prego, torna a casa. Il cane ti aspetta, lo faccio scendere io ora, mattina e sera, e anche i tuoi pesciolini ti aspettano. Puoi fare quello che vuoi, andare in moschea, pregare, leggere il Corano, ma torna, guarda quanti bravi ragazzi ci sono che vanno avanti, perché non vuoi vivere come tutti?».
Papà Nikolay piange tormentando un fazzoletto, mamma Fanazia, tallieurino verde acqua e occhiale, cerca di mostrarsi più composta. Sono venuti nel Daghestan, lontana terra esotica che solo sulla carta si chiama Russia come il loro paese sul Volga, a cercare loro figlio. Pavel Pechionkin, anno di nascita 1984, paramedico diplomato, sparito nel nulla nel 2012 dopo essere andato a cercare fortuna a Mosca. «Ci dicevi che guadagnavi laggiù, disintossicavi a domicilio gli ubriachi, torna a casa, e fai tornare anche gli altri ragazzi».
Il video è stato registrato nell’agosto 2013, quando qualcuno dei servizi russi ha pensato di utilizzare i disperati Pechionkin per richiamare dalle montagne i mujaheddin intenti alla jihad. Sei mesi dopo la faccia tonda di Pavel campeggia sui teleschermi russi. A quanto pare, è stato lui ad attivare la bomba alla stazione di Volgograd. Ma prima ha risposto ai genitori, in un video propagandistico prodotto dal «velayat Daghestan», una delle sigle islamiste del Caucaso, con rudimentali effetti speciali come muri che crollano e una musica da blockbuster hollywoodiano in sottofondo.
Fascia verde sui capelli biondi e un russo molto più fluente della parlata contadina dei suoi genitori, non riesce a nascondere un sorrisetto ironico, di superiorità verso quei due «vecchi» di provincia rispetto ai quali si sente un eroe. Si presenta come Ansar al-Rusi, parla di Allah, cita a sproposito sure del Corano, e continua a ridacchiare.
Pavel è il nuovo incubo russo, un orrore nuovo in quello ormai abituale del terrorismo. Dopo l’ondata di odio xenofobo sollevata domenica dalla prima bomba a Volgograd, con i social network che si riempivano di appelli ad «ammazzare i caucasici», si scopre che il terrorista è un bravo ragazzo della porta accanto. E che non è il solo. A organizzare la strage precedente a Volgograd, il 21 ottobre scorso, fu Dmitry Sokolov, russo convertito da sua moglie Naida Asiyalova, che si è fatta esplodere su un autobus. A sostituire il «Leone di Allah», comandante ucciso nel Daghestan ad agosto, è stato il 25enne Alexei Pashinzev, di Belgorod. E i servizi ora stanno cercando altri 9 ragazzi russi, gli «al-Rusi» come si fanno chiamare in un riadattamento degli usi arabi, che sono «saliti in montagna», o «andati nella foresta».
Cosa ha portato questi mujaheddin biondi a suicidarsi in nome della jihad nelle stazioni di casa loro (Pavel veniva da Volzhsk, non lontano da Volgograd), resta un mistero. Forse un sentimento di ribellione giovanile, che avrebbe potuto spingere Pavel in una setta come in un gruppo punk, la fuga dallo squallore della provincia. O forse quella rabbia che alimenta già da anni il fondamentalismo nel Caucaso, dove la reazione alla corruzione e all’assenza di prospettive per i giovani è la guerriglia.
Sicuramente Pavel si sarà sentito molto più eroe a fare parte del Dzhamaat, della comunità di ribelli, che a disintossicare ubriaconi in una Mosca piena di tentazioni per lui irraggiungibili. Del resto, da anni il rigore islamista sta contendendo nelle carceri russe il potere alla vecchia «legge» dei ladri russi, un nuovo codice d’onore transnazionale. Dieci anni fa la paura della mamma di Pavel sarebbe stata quella di vederlo arruolato come soldato in Cecenia. Oggi, che la guerra è finita, sembra che i ribelli trovino più reclute tra gli ex nemici che in casa.