Christian Raimo, la Repubblica 31/12/2013, 31 dicembre 2013
ADDIO TECHNICOLOR IL MADE IN ITALY DEI GRANDI FILM
Qualche settimana fa, quando ho letto la notizia che lo stabilimento della Technicolor di Roma chiuderà definitivamente il 31 dicembre, licenziando gli ultimi 94 dipendenti e abbandonando la sede storica di via Tiburtina a chissà quale riconversione, ho sentito come se mi avessero annunciato che un certo corpo celeste che ero abituato a vedere in cielo, alle volte remoto, alle volte incombente, da un momento all’altro sarebbe scomparso: ho pensato che, almeno per me, finiva un’era.
Ho a che fare con la Technicolor da quando sono nato, letteralmente; mia madre mi racconta che in ospedale, poche ore dopo avermi partorito, aspettava mio padre che recalcitrava nell’andarla a trovare: «Sbrigati a uscire, sai che qui al lavoro è un momento difficile». È vero che tutto il tempo che mio padre ha lavorato è stato, a quel che sosteneva, «un momento difficile». Del resto è anche vero che tutto il tempo che mio padre ha lavorato l’ha fatto per la Technicolor: per trentotto anni siè svegliato tutte le mattine feriali e ha preso l’autobus poi la bici poi la Cinquecento poi la Opel Kadett poi la Volvo aziendale, per andare in via Tiburtina 1138. Trentotto anni in cui è rimasto legato alla stessa azienda - uno in più di quelli in cui è stato sposato con mia madre. Ha cominciato come tecnico nel laboratorio chimico alla fine degli anni Sessanta, ha fatto carriera interna fino a diventare responsabile delle risorse umane, ed è riuscito a godersi solo un paio d’anni di pensione, prima di morire, nel 2009.
Alla Technicolor ce l’aveva portato mio nonno, calzolaio reinventatosi operaio addetto allo sviluppo e stampa, negli anni del boom, quando lo stabilimento aveva più di mille operai ed era gestito da un direttore d’altri tempi, Italo Tinari, che frequentava i registi dell’età dell’oro di Cinecittà e cenava con la bellissima moglie Paola nei ristoranti di Via Veneto.
Ma qui già iniziano le mitologie sulla Technicolor, e ognuno ha la sua. La mia per esempio è legata a una cosa che si chiama metodo ENR (Ernesto Novelli & Raimo).
Mio padre era assunto con un contratto inimmaginabile oggi: studente-lavoratore, laureando in chimica, che per garantirsi il rinnovo doveva ogni anno essere in pari con gli esami. A poco più di trent’anni gli capitò di inventare un processo chimico che «se l’avessi brevettato saremmo ricchi».
L’aneddotica vuole che su un pezzo di pellicola fossero rimaste tracce di qualche sale d’argento (usato nello sviluppo e poi fatto precipitare). Pasqualino De Santis, il direttore della fotografia Oscar per Romeoe Giulietta di Zeffirelli, vide questo pezzo e disse: «Voglio quell’effetto lì»; mio padre e il datore luci Ernesto Novelli cercarono di accontentarlo. In realtà si trattava di aggiungere ai tre filtri che costituivano la pellicola a colore (il magenta, il cyan e il giallo) una specie di quarto filtro bianco/nero realizzato con un bagno di bromuro d’argento. Siccome l’argento si annerisce alla luce bianca, l’immagine acquista in nitidezza: i neri che assomigliano a bluastri nella pellicola senza ENR con l’ENR sono molto neri, i colori sfarinati diventano iperdefiniti, si accentuano i contrasti.
Il primo film che uscì con questo metodo fu Cadaveri eccellenti di Francesco Rosi, nel 1976. Quella generazione aurea di direttori della fotografia s’innamorò tutta dell’ENR: Peppino Rotunno, Dante Spinotti, Pasqualino De Santis, ma soprattutto Vittorio Storaro. L’utilizzo che Storaro fece dell’ENR diventò una specie di paradigma dell’immagine cinematografica. Ci vinse tre Oscar, per Apocalypse Now, Reds e L’ultimo imperatore. C’è una foto che ogni tanto mi tornava tra le mani quando nei giorni di festa le catalogavo da bambino: quella di un tavolo ovale, in un ufficio di legno alla Technicolor, un gruppo di poco più che ragazzi sorridenti, vestiti con completi beige stretti in vita e camicie dai colletti enormi, mio padre coni baffi foltissimi,e la statuetta dell’Academy proprio al centro. Cos’è questa?, mi chiedo. È solo la nostalgia di un tempo che non ho vissuto? Il rimpianto di un’epoca meravigliosa in cui il cinema italiano produceva film che per me nel tempo sono diventati feticci, Il conformista, La terrazza, Il caso Mattei, Amarcord? I ricordi di quando mio padre ci portava, me e mia sorella e qualche fortunato amichetto, ogni Befana alla proiezione per le famiglie nel cinema dentro la fabbrica a vedere E. T. o Nati con la camicia di Bud Spencer e Terence Hill? Il fatto è che, al di là delle agiografie personali, la Technicolor per molti versi ha continuato a rappresentare non solo un simbolo, ma un modello industriale. E se è vero che le memorie di chi ci ha lavorato spaziano dal racconto di quella volta quando con l’esondazione dell’Aniene i vigili del fuoco recuperarono la copia-matrice di C’era una volta in America; o di quando, sempre a fabbrica inagibile, gli operai pur di far arrivare in tempo le copie in sala se le nascondevano in macchina; o di quando Antonioni fece rifare la stampa venti volte, o di quella volta che Benigni, di quell’altra che Moretti...; è anche vero che il cuore di questa storia sta nella maestria delle persone che ci lavoravano - e che sarebbero rimasti a lavorare se la dirigenza della multinazionale francese che oggi è la proprietà non avesse deciso di chiudere. Un artigianato di altissimo livello: nell’epoca del passaggio al digitale in cui un film si realizza tutto con un computer, la Technicolor si era anche saputa reinventare, investendo in formazione e macchinari all’avanguardia. Ha continuato di fatto a essere il cinema italiano - La grande bellezza, solo per citare l’ultimo, è stato realizzato qui; il kolossal su Maometto dell’iraniano Majid Majidi doveva essere finalizzato in questi giorni. Ecco, se c’è una cosa che ho imparato quando, da ragazzino, mio padre tornava a casa alle dieci o lavorava le domeniche o, quando dopo la sua morte, mi telefonavano i sindacalisti con cui aveva fatto le notti per arrivare alla firma di un contratto collettivo, è che da qualche altra parte lì ci doveva essere una cosa che non era solo il senso di responsabilità, il dovere, ma una specie di amore per un progetto comune. E quindi cosa? Che cos’è che mi fa rabbia nella fine di questa storia - in fondo, come si dice, non tutte le storie finiscono? Un senso di sconfitta: l’idea che ci sarebbe potuta essere - ci potrebbe forse essere ancora - un’Italia differente, un Paese in cui i processi industriali e l’immaginazione artistica fanno parte della stessa cultura. O forse solo il desiderio di ricordarmi di mio padre ogni volta che vedo scorrere i titoli di un film. Christian Raimo è scrittore e traduttore Il suo ultimo libro è Il peso della grazia (Einaudi)