Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  dicembre 31 Martedì calendario

UOMINI E CAVIE


L’indirizzo segreto delle cavie è da qualche parte, tra i capannoni dismessi e quelli che ancora funzionano ai confini tra Torino e Orbassano, poco dopo la Fiat Mirafiori. Qui vivono, accuditi con grande attenzione, quasi duemila roditori: topolini bianchi o marroni, grandi come quelli di Cenerentola, che arrivano a pesare 25 grammi al massimo, e robusti ratti, quasi sempre bianchi, che possono arrivare a 800 grammi e nonostante la familiarità con la quale i ricercatori se li lasciano salire sulla spalla mettono un po’ di soggezione. «Se non li trattassimo bene, se facessimo anche un solo esperimento inutile o crudele, sarebbe la nostra stessa comunità scientifica a buttarci fuori», spiega Ferdinando Rossi, 53 anni, medico, direttore di Nico, il Neuroscience Institute Cavalieri Ottolenghi dell’Università di Torino. «Lavoriamo sul Parkinson, sull’Alzheimer, sulla sclerosi multipla e su come le cellule del sistema nervoso possono rigenerarsi e aiutare le persone a guarire».
Rossi e i suoi colleghi, dal vice Alessandro Vercelli fino al più giovane dei tecnici di laboratorio col piercing al sopracciglio e il camice impeccabile, non sono e non si sentono scienziati che lavorano tra segreti e misteri. E neppure perseguitati, nel Paese dove una ragazza malata che difende la ricerca sugli animali viene insultata e minacciata su Facebook. «Succede che qualcuno di noi si trovi una catena intorno al cancello di casa — minimizza Rossi — e del resto il mondo è pieno di pazzi, per questo non pubblicizziamo l’indirizzo dello stabulario dove vivono le cavie. Non possiamo permetterci milioni di euro di danni, ci teniamo ai nostri topolini. Ma non abbiamo nulla da nascondere, anzi». Esiste un possibile dialogo con gli animalisti? «Il dialogo c’è già, il tema etico è importantissimo per noi e abbiamo regole severe, per gli animali come per i pazienti — risponde Rossi — Poi, io discuto con tutti, ma quello che ci serve è un po’ di razionalità, altrimenti l’Italia non andrà mai avanti e continueremo anche con i nostri studi ad arricchire altri paesi. Lavoriamo con Elena Cattaneo sulle staminali, peccato che le cellule vengano prodotte in Inghilterra e Olanda e non qui, dove è vietato».
Con camice, cuffia, mascherina e sovrascarpe ci si può affacciare per un momento nella stanza delle cavie: gabbiette bianche impilate una sull’altra, temperatura controllata a 22 gradi, famigliole di topini che giocano, dormono o mangiano, la luce accesa dalle 8 alle 20 per simulare il giorno e la notte, gli occhi rossi e inquietanti dei ratti, che invece vivono ciascuno per suo conto e scrutano con interesse i visitatori umani. Come mai tanto silenzio? Vercelli sorride: «Gli squittii dei topi sono perlopiù ultrasuoni che noi non possiamo sentire ». Che effetto fa a un medico frequentare solo cavie, siringhe, microscopi? «Non è così. Vediamo tutti i giorni i colleghi, i malati o i loro parenti. Parlare con i genitori dei bambini che hanno un danno permanente o una malattia degenerativa come la sclerosi fa capire molte cose. E accade che qualcuno ti chieda di esserci quando suo figlio deve entrare in sala operatoria, là dove speri di vedere a che cosa hanno portato le tue ricerche». Perché i topi? Di nuovo Vercelli sorride: «Arrivo da una famiglia contadina e può darsi che questo abbia influenzato i miei rapporti con gli animali, che pure amo molto. Ma le assicuro che non c’è stata una scelta morale, o gerarchica: semplicemente per studiare il cervello dell’uomo serve poter studiare il cervello di un mammifero, che nelle grandi linee è comunque piuttosto simile. I topi sono maneggevoli, e molto resistenti». «Produrre» una cavia, cioè allevarla e selezionarla, costa circa 6 euro, un’inezia rispetto a quello che viene dopo: i controlli dei veterinari che vengono a vedere se gli animali stanno bene e l’acqua è stata cambiata, le attrezzature di laboratorio, i farmaci, le macchine. Eppure la stanza degli esperimenti è basica: c’è un labirinto a quattro braccia che serve a misurare il livello di ansietà dell’animale, una ruota come quelle dei criceti sulla quale il topo gira fino a quando ne ha voglia e poi si lascia scivolare, per conoscere le sue energie, un corridoio per correre, una specie di levetta appuntita che la cavia tocca con la zampa e rileva il suo livello di sensibilità. E la piscina, una vasca tonda e gialla con i punti cardinali scritti a pennarello sul bordo per chi deve prendere appunti. Ma ci sono anche le bottigliette infilate tra le sbarre dalle quali le cavie succhiano farmaci che potrebbero ucciderle: sono gli stessi che in futuro useranno donne e uomini, per esempio i malati di Sla che spesso non riescono più a curarsi perché il loro organismo ha sviluppato troppi anticorpi. Sul cartellino esterno c’è una sigla (una lettera e cinque cifre) e l’esperimento in corso. E se il topo sta male? Se soffre? «Se è un problema acuto gli diamo un antidolorifico. Se è cronico lo sopprimiamo, utilizzando un anestetico. È un grande problema questo del dolore, non smettiamo mai di studiarlo, come del resto si deve fare per gli esseri umani». Quanto “dura” una cavia? «I topi diventano adulti a tre mesi, a otto mesi sono nel pieno della maturità, al massimo possono vivere due anni, ma non se sono in libertà perché in quel caso incidenti vari, come veleni e predatori, ne uccidono un bel po’. Qui da noi, dipende molto dal tipo di ricerca: sei mesi, un anno, o poco più».
Perché non potete, semplicemente, smettere di usare animali? Rossi conta fino a dieci. Poi parte: «Perché fino a oggi non sono stati trovati sistemi alternativi. Facciamo al computer quello che si può fare al computer, in vitro ciò che è possibile, il resto con le cavie. Queste cose qualunque ricercatore le sa, e anche molti altri, ma come si vede bene in questi giorni nel nostro Paese la cultura scientifica è scarsa, prevale l’emozione. E può accadere che chi è favorevole alle staminali sia contrario alle cavie, e così via». Per quanto li si provochi, per quanto li si incalzi, gli uomini e le donne della Fondazione Ottolenghi non diranno mai che la morte dei topi salva vite umane. «Non tocca a noi, ci accontentiamo di lavorare per trovare cure sempre migliori. Non ci serve gettare benzina sul fuoco, abbiamo rispetto di chi si preoccupa della sofferenza animale e fa battaglie contro i macellilager o semplicemente sceglie di non mangiare carne. Noi facciamo un’altra cosa, cerchiamo di far andare avanti la conoscenza, senza la quale non si possono sconfiggere le grandi malattie del nostro tempo». È quasi ora di spegnere la luce e mandare i topi a nanna, anche se non è detto che obbediscano. Ma è difficile non pensare, mentre si va via dal posto segreto della cavie, che senza Rita Levi Montalcini e le sue zampe di gallina (e poi i suoi topi di laboratorio) e senza Annetta Ottolenghi che lasciò tutti i suoi averi a questo laboratorio perché nella sua famiglia troppe persone si erano ammalate, il mondo sarebbe peggiore.