Adriano Sofri, la Repubblica 31/12/2013, 31 dicembre 2013
I SIGNORI DEL TERRORE
UN GIOVANE russo convertito, una giovane daghestana (chiamarla “vedova nera” allude alla vedovanza e al sudario nero, ma evoca un ragno velenoso da schiacciare) hanno attuato la loro micidiale staffetta terroristica, per ora.
La prima guerra russo-cecena (1994-96) era ancora lo scontro fra la Russia imperiale e l’indipendentismo ceceno, o del Caucaso del Nord. Quando il nazionalismo ceceno fu ferocemente annientato, il sogno antico dell’indipendenza o della Federazione della Montagna lasciò il posto all’internazionalismo islamista e allo slogan dell’emirato del Caucaso. Putin ha voluto aggiudicarsi i Giochi Invernali del febbraio 2014 per mettere spettacolarmente in scena il trionfo ottenuto sulla ribellione cecena, che gli aveva spianato la strada. Ha scelto Sochi, uno scenario prossimo al Caucaso indomato, sulla sponda orientale del Mar Nero — il Daghestan è sulla sponda occidentale del Caspio. Ha investito una somma colossale, oltre i 50 miliardi di dollari, e uno spiegamento enorme di forze di sicurezza. La terribile sequenza di attentati che ha colpito Volgograd — l’ultimo nome di Tsaritsyn e Stalingrado — in meno di due giorni, ed era stata preceduta da un’altra strage nell’ottobre scorso, era la più annunciata, dai servizi di informazione russi e dall’istigatore, l’“emiro” ceceno Doku Umarov. Le olimpiadi di Sochi dovevano già fare i conti con le defezioni di stato occidentali (non l’italiana, finora) legate alla omofobia governativa. Hanno ora davanti tre mesi, contando le paralimpiadi di marzo, di sfide sanguinose. Ma non si tratta solo della prosecuzione terroristica del confronto fra imperialismo russo e irredentismo caucasico. I ceceni della diaspora sono un reparto fra i più agguerriti e prestigiosi dell’internazionale islamista, e in Siria, dove si è dislocato il conflitto fra sunna e shi’a, combattono una guerra interposta contro i russi protettori di Bashar al Assad. Ci si era chiesti se l’adunata dei combattenti ceceni provenienti dalla diaspora turca ed europea, austriaca specialmente ma anche britannica, scandinava, francese, stesse avvenendo in contrasto con la vecchia guardia di Umarov, intenzionata a concentrare le forze nel Caucaso presidiato dai russi e dai loro satelliti, compreso il satrapo ceceno Ramzan Kadyrov. Può darsi che fosse così all’inizio, ma col tempo la guerra civile siriana
si è incancrenita e all’opposizione locale si sono sempre più sovrapposti gli “stranieri”. “Jaish Muhajirin Wa Ansar” (Esercito di emigrati e soccorritori) è il nome che i ceceni si sono dati, alleandosi con il qaedismo iracheno ma badando a tenere una loro autonomia di comportamenti e di territorio, fra Aleppo, Idlib e Latakia. A loro capo, anche lui col titolo di emiro, comandante, c’è un ceceno-georgiano della valle del Pankisi, Tarkhan Batirashvili (lo vedo citato anche come Umar Gorgashvili, e non ne so abbastanza), che ha preso il nome di battaglia di Umar al Shishani (“il ceceno”). Le cifre sui suoi uomini sono arbitrarie, da qualche centinaio a qualche migliaio, ma bastano a far incombere sulla Russia lo spettro di un ritorno di militanti formidabili e capaci di egemonizzare e tirarsi dietro altre sezioni dell’internazionale islamista.
Benché se ne parli poco o niente, e il Cremlino faccia di tutto per passarli sotto silenzio, gli attacchi islamisti in Daghestan, Inguscezia, Kabardino-Balkaria, Sud-Ossezia sono endemici. Oggi i due fronti — quello del terrorismo interno ai confini russi e quello siriano — si sono spalancati contemporaneamente e minacciosamente. Chi guardi allo stato del mondo in certi punti più infiammati ha la sensazione del profano che estragga da una nicchia del muro di casa il groviglio di cavi e fili elettrici collocati e riparati alla meglio durante gli anni, e si chieda come venirne a capo, tanto più che i colori che dovrebbero distinguerli si confondono a mezza strada. I ceceni sono un piccolo popolo, “un moscerino nell’occhio della Russia”: di leggendaria prodezza, ma neanche un milione e mezzo su un territorio più piccolo della Puglia; e sono sì e no 3 milioni i daghestani, da cui provengono tante disgraziate “vedove nere” che non trovano la forza di rifiutarsi di uccidere e di morire. Deportati e falcidiati da Stalin, i ceceni vennero spediti dall’Urss di Breznev a far da prima fila all’invasione dell’Afghanistan: ci andarono, ma ne impararono la lezione, passarono con gli afghani contro i sovietici. Tornarono a casa loro e si batterono a morte per ottenere quello che l’Unione Sovietica sciogliendosi aveva promesso e concesso alle repubbliche. Dopo due “guerre” impari si di-
spersero ai quattro angoli della terra, nella Norvegia del crociato Brevik, nella Boston della maratona, nella Siria fra la frontiera turca e Aleppo, e intanto arrivavano in Israele gli ebrei russi della generazione rinominata a sua volta “cecena”, che aveva servito dall’altra parte. Questo nomadismo di fuorusciti somiglierebbe a quello della primavera d’Europa se fosse risorgimentale, a quello internazionalista se fosse di classe: è a metà fra la superstizione fondamentalista e il mercenarismo reciproco coi suoi foraggiatori. (Sono i sauditi o il Qatar a giocare i ceceni che finanziano, o viceversa, e fino a quando?). È odiosamente eroico e spietato. Incontrai in Cecenia il saudita Ibn al-Khattab, reduce dall’Afghanistan, stava con Shamil Basaev, accompagnato da un’aura epica ma guardato ancora con insofferenza dai ceceni. Morì avvelenato dal gas nervino del Fsb, l’ex Kgb, nel 2002, è oggi venerato dai suoi. In una lunga intervista, la prima che diede a un non musulmano, mi raccontò dell’Afghanistan, del nemico russo che ora era venuto a combattere in Cecenia, annunciò che dopo averlo sconfitto avrebbero rivolto le armi contro gli Stati Uniti. Aveva una sciarpa di seta bianca che stonava come uno strano vezzo sull’uniforme mimetica, mi spiegò che era il regalo di un fratello molto importante. Non avevo mai sentito prima il nome di Osama Bin Laden.
La geografia non è mai stata decisiva come nel mondo di oggi, solo che bisogna imparare a decifrarla e riscriverla rinunciando a dare per fondato un ingrediente fatale come i confini, che per oltranza si ridisegnano e si rialzano come muraglie. Centomila uomini del Fsb, si dice, impediranno a vetture ed esseri umani di arrivare a Sochi senza essere ispezionati da capo a piedi: ma chi impedirà a una sventurata di 25 anni o a un suo coetaneo con gli occhialini di arrivare a Volgograd o in un’altra metropoli, di entrare in una stazione, di salire su un autobus, di aspettare l’uscita di una scolaresca? Sarà orribile ed esecrabile, come ieri, come l’altroieri. Tuttavia, senza attenuanti, ogni volta si dovrà ridomandarsi da dove venivano la nera sventurata, il giovane con gli occhialini.