Roberto Iasoni, Corriere della Sera 31/12/2013, 31 dicembre 2013
E SIMENON SCOPRÌ LA PUREZZA
Quel fenomenale depistatore di Georges Simenon sostenne che L’Angioletto (editrice Adelphi, traduzione di Marina Di Leo, pagine 197, e 10) fu un’evasione dal suo registro: per una volta (una sola in tutta la sua immensa produzione), la tipica figura simenoniana dell’uomo spinto oltre il limite con il suo carico di colpe viene rimpiazzata da un protagonista innocente e consegnato alla piena realizzazione di sé come pittore. A prendere per buone le sue parole, Simenon avrebbe composto «una sorta di inno alla vita, un canto di speranza e di pace» (lo scrive nelle Memorie intime ).
Speranza e pace. Non c’è dubbio che ad aleggiare sulla sordida ambientazione del romanzo, scritto nel 1964 con il solito furioso metodo («Il 5 ottobre mi piazzo davanti alla macchina per scrivere e, il 13 dello stesso mese, dunque nove giorni dopo, metto la parola fine»), sia qualcosa che sa di ottimismo.
Louis Cuchas, l’angioletto, vive in quel covo di barboni che è il quartiere Maubert di Parigi; un girone miserabile, fetido e promiscuo, nel quale per miracolo conserva la sua innata purezza. Il padre è sparito; la madre passa la notte con uomini che si dileguano all’alba come ladri e di giorno spinge la carretta di erbivendola dalle parti delle Halles; il cinico fratello maggiore mima con la sorellina i giochi erotici spiati agli adulti; i gemelli un po’ più grandi si accorgono di lui solo per prenderlo in giro; l’ultima della nidiata muore gattonando nell’insana topaia: un inferno sottoproletario.
Louis osserva quel mondo piccolo e feroce da dentro una bolla di stupore. Guarda. Annusa. Immagazzina ogni impressione. Parla poco e non fa domande, non prende posizione, non reagisce alle provocazioni dei coetanei. Ma è bontà questa calma imperturbabile?
Simenon ci avverte che Louis «trabocca di affetto per i suoi cari» e descrive il suo sorriso appena accennato «come il riflesso di una gioia interiore», lo definisce «un enigma», aggiunge che l’espressione mite del bimbo, divenuto nel frattempo diciannovenne, si è trasformata in una maschera «terribilmente maliziosa». Se è bontà, di sicuro non è dell’edificante specie tramandata dall’eroica e partecipe infanzia deamicisiana. Louis non partecipa, è impermeabile alla vita degli altri. Cresce mentre la storia — con la Grande guerra — gli passa accanto senza afferrarlo, lasciandogli coltivare in pace il suo tirocinio di artista.
C’è qualcosa di Simenon nella figura di Cuchas? La critica, da Pierre Assouline a Bernarde Alavoine, risponde di sì. A cominciare dalla percezione dell’atmosfera, quella straordinaria sensibilità ai dati sensoriali che è il marchio di fabbrica dello scrittore (dai Maigret ai «romanzi del destino»), e viene ceduta al giovane artista come caccia ossessiva alla «vibrazione dello spazio tra gli oggetti». I colori puri di Cuchas sono le parole pure di Simenon, le sue «parole-materia»: «La parola vento, la parola caldo, la parola freddo. Non parole astratte, ma parole concrete» (sosterrà in un’intervista del ‘65). Ma soprattutto c’è Simenon, con la sua aspirazione a una vita serena e appartata, nel distacco di Cuchas, idealizzazione dell’artista che ha per il mondo un interesse puramente documentario. Niente di più lontano, per dire, dall’artista di Camus, mobilitato nello scomodo intervallo fra la decifrazione della bellezza e l’urgenza di comunicare, forgiato nel rapporto con i suoi simili. Eppure, curioso, Simenon e Camus s’incontrano alla fine dei rispettivi percorsi: il vero artista, dicono entrambi, obbliga a comprendere anziché a giudicare.
Atipico e ambiguo, popolato di demoni autobiografici (non a caso è tra le opere più care allo scrittore), emozionante laddove in una semplice frase ferma l’universo (vedi la pagina sull’odore della notte), nella sua grandezza L’Angioletto è un inno più all’egoismo che all’ottimismo. L’egoismo dell’artista, che si tiene alla larga dall’impegno, e dell’uomo Simenon, che in quegli anni chiude definitivamente — un altro atto di disimpegno — con la moglie Denyse, alcolizzata e depressa, abbandonata al suo destino clinico.
Antidoto ai sensi di colpa (come lo ha definito Anne Richter), romanzo della resurrezione (per Assouline) o della solitudine estrema (Alavoine), il libro, dalla gestazione tormentata e a lungo rimandato, ha tutta l’aria di un regolamento di conti con se stesso. Quasi mezzo secolo fa, i lettori lo trovano in libreria avvolto da una fascetta su cui si legge: «Finalmente l’ho scritto!», la confessione del malessere soffocato sotto la maschera pacifica di Louis Couchas.