Ian Bremmer, Corriere della Sera 31/12/2013, 31 dicembre 2013
SE L’AMERICA CONTINUA A DISTRARSI IL RISCHIO DI UNO SCONTRO IN ASIA
Washington non può permettersi di ignorare i rischi, i costi e le possibilità frutto del gioco di sfide e di opportunità in Medio Oriente. Eppure dobbiamo augurarci che l’amministrazione Obama continui a riconoscere l’Asia orientale come la regione più importante per il futuro dell’economia mondiale. È lì che la Cina, il mercato emergente in più rapida espansione, sta ampliando la sua influenza, ed è sempre lì che il Giappone, l’alleato più fidato dell’America in quell’area, sta lottando per risanare un’economia un tempo dominante, mentre la Corea del Sud, il più maturo tra i mercati emergenti, sta cercando di instaurare con entrambi rapporti duraturi.
Ecco perché la recente decisione di Pechino, che ha affermato il suo diritto di controllare lo spazio aereo sopra le isole contese nel mare della Cina orientale, dovrebbe ricordarci che questa regione tanto promettente è ancora in balia di un’intricata combinazione di vecchi e nuovi conflitti, e che perciò richiede un’attenzione costante da parte di Washington. Sia il passato che il presente continuano a complicare le relazioni tra questi tre Paesi. Al primo posto ci sono le esigenze di oggi. In Giappone, il primo ministro Shinzo Abe è impegnato nel tentativo di rilanciare l’economia nazionale. È stato costretto a mettere in gioco la propria popolarità in nome delle riforme, sfidando le prerogative della potente industria giapponese e dei sindacati. Abe ha fatto crescere così tanto le aspettative dell’opinione pubblica, che l’eventualità che la sua Abenomics possa semplicemente non riuscire a rilanciare l’economia giapponese sarebbe per lui un rischio enorme. Se ciò dovesse accadere, al premier verrebbe a mancare la credibilità politica per realizzare qualsiasi altra cosa.
I leader cinesi, nel frattempo, sono sul punto di lanciare il progetto di riforme economiche più ambizioso della storia: il tentativo di passare da un modello di crescita che l’ex premier Wen Jiabao aveva definito «instabile, sbilanciato, scoordinato e insostenibile», trainato dalle esportazioni e controllato dallo Stato, a un altro guidato dai consumi interni, in cui saranno le forze di mercato a determinare sempre di più prezzi e risorse. È ovvio che queste riforme rappresentano un rischio incalcolabile per il futuro del Partito comunista cinese e per la sua permanenza al potere. Questi tre governi, perciò, hanno interesse nel cercare degli scontri limitati con i loro vicini. I vecchi rancori e le dispute territoriali tornano utili, quando i leader vogliono rafforzare la propria popolarità nazionale attraverso parole pesanti e azioni di forza in politica estera. Nessuno di questi tre Paesi vuole degli scontri che possano causare danni economici duraturi, ma nessuno di loro può neanche esercitare un perfetto controllo: nessuno può prevedere, infatti, come reagiranno i cittadini alle parole e alle azioni dei propri leader.
Le minacce sono maggiori quando gli Stati Uniti non contribuiscono in modo attivo a gestire le tensioni. Ecco perché bisogna preoccuparsi quando Washington viene distratto dalla situazione in Medio Oriente: perché lascia i governi dell’Estremo Oriente con l’impressione che gli Usa non siano affatto dei paladini che si battono per difendere la sicurezza della regione.
Nel corso del suo primo mandato, il presidente Obama si era impegnato pubblicamente per realizzare «il pivot verso l’Asia», uno stanziamento di risorse economiche, politiche e militari supplementari verso la regione. Alla base di questa linea politica c’è la Trans-Pacific Partnership (Tpp), un accordo commerciale di enorme portata, che potrebbe rafforzare in modo significativo e a lungo termine la crescita sostenibile alle due estremità dell’Oceano. Ma da quando, di recente, l’attenzione del governo americano si è spostata su Iran, Siria e altre questioni mediorientali — problemi, certamente, di estrema importanza — l’amministrazione ha perso di vista quella che aveva definito la sua priorità politica. Fortunatamente la Casa Bianca ha annunciato una visita di Obama in Asia, prevista per aprile, con tappe a Tokyo, Seul e Pechino. Dovrebbe anche includere delle dichiarazioni — le più decise mai rilasciate dal presidente — riguardo al fatto che gli Stati Uniti sono, e rimarranno, un attore chiave per la sicurezza e le relazioni commerciali in Asia. Inoltre, Obama può rassicurare Pechino che né il «pivot» né il Tpp hanno l’obiettivo di isolare la Cina o di arrestarne la crescita: lo testimonia infatti la volontà degli Stati Uniti di sviluppare relazioni commerciali formali tra la Cina e gli Stati aderenti al Tpp, e il loro sostegno ad un accordo di libero scambio che leghi ulteriormente Cina, Corea del Sud e Giappone. Tale accordo, che rappresenta il massimo che questi tre Paesi potrebbero riuscire a raggiungere, limiterà il rischio di conflitti e incentiverà con più forza la cooperazione.
Naturalmente c’è un altro fattore che rende ancora più necessaria una stretta collaborazione tra Stati Uniti, Giappone, Cina e Corea del Sud: la sfaccettata minaccia rappresentata dalla Corea del Nord. Basta alzare gli occhi per ricordare che, nonostante gli sforzi compiuti da elementi esterni, attraverso l’invio di aiuti a Pyongyang, per rinviare il momento della resa dei conti, un giorno la Corea del Nord crollerà sotto il peso della propria impotenza economica. La riunificazione coreana sarà così complessa, così costosa e così importante che Corea del Sud, Giappone, Cina e Stati Uniti non avranno altra scelta che lavorare insieme, ognuno seguendo i propri interessi, per evitare la catastrofe e per ripristinare le condizioni necessarie per una possibile crescita economica regionale. Nel corso di quel processo, la Corea del Nord potrebbe fare più di qualsiasi altro Paese per ispirare un livello nuovo di cooperazione tra i tradizionali antagonisti in Estremo Oriente.
L’autore è un politologo americano
(Traduzione di Sara Bicchierini )