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 2013  dicembre 31 Martedì calendario

EIGER, ANNAPURNA E CERVINO LE VETTE ENTRATE NELLA STORIA


«Oggi, spinto dal solo desiderio di vedere un luogo celebre per la sua altezza, sono salito sul più alto monte di questa regione, chiamato giustamente Ventoso». Comincia così il racconto di quella che è considerata la salita madre dell’alpinismo moderno. Lo scrive il 26 aprile 1336 Francesco Petrarca, molto più letterato che sportivo. Il suo racconto riguarda infatti una cima minore. Nulla a che vedere con Cervino, Eiger, Everest, Annapurna, K2 o Cerro Torre, i picchi classici che ben oltre mezzo millennio dopo detteranno la storia delle grandi salite. Il Monte Ventoso è alto meno di 2.000 metri, ripido certo, specie nelle fasce sommitali. Però percorribile a piedi da ogni lato e oggi raggiungibile in auto sino alla cima affollata di antenne e ripetitori. Tanto bello è il suo panorama, spazia dall’entroterra ubertoso della Provenza nord-occidentale per arrivare sino al Mediterraneo, che costituisce ormai da decenni una delle tappe più note del Tour de France. La fama che lo pone all’incipit della storia della letteratura di montagna è dovuta alla celebre lettera che Petrarca scriva all’amico frate agostiniano Dionigi di Borgo San Sepolcro, in cui lo spirito del Rinascimento fa irruzione nel rapporto tra uomo e natura. Vi si ritrovano il senso della scoperta, della sfida con l’ignoto, il piacere dell’esercizio fisico, della fatica finalizzata a un obbiettivo, della ricerca del passaggio giusto e lo smarrimento nel non trovarlo. E tanti dei temi apparsi poi negli scritti di Edward Whymper, Walter Bonatti, George Mallory, Edmund Hillary, Lionel Terray, Hermann Buhl, Maurice Herzog e tutti coloro tra i grandi dell’alpinismo che hanno messo su carta le proprie riflessioni. Non solo soddisfazione, ma anche scoramento, stanchezza, desiderio di «tornare indietro», paura, invidia, ricerca di un senso del vivere, e noia.
Francesco e il fratello Gherardo non camminano tutta la giornata per una battuta di caccia, né sono taglialegna, neppure pastori alla ricerca di animali perduti, tanto meno soldati in missione. Non hanno fini utilitaristici. Il loro slancio nasce dal desiderio semplice di salire un’altura che hanno visto dal basso «sin dall’infanzia». Giunti in vetta, il Petrarca annota: «Ciò che ero solito amare, non amo più; mento: lo amo, ma meno; ecco, ho mentito di nuovo: lo amo, ma con più vergogna, con più tristezza; finalmente ho detto la verità. È proprio così: amo, ma ciò che amerei non amare…». Una ricerca di se stesso, molto terrena sebbene ispirata dal cielo aperto, confusa, ma onesta, ricorda i treni di pensieri, a tratti ossessivi, a tratti leggeri, che si affardellano nella mente di chi in silenzio compie un solitario sforzo monotono, ripetuto, prolungato.
Sono temi che esplodono a metà Ottocento, quando i figli delle classi medio-alte europee — prima inglesi, poi austro-tedeschi, francesi, svizzeri e italiani — cominciano a cimentarsi sulle Alpi. È il momento delle grandi sfide, raccontate e amplificate dai primi quotidiani di vasta tiratura, che le trasformano in competizioni nazionali e gloriose-drammatiche lotte tra uomo e montagna. Tra le più note quella della prima ascensione per il Cervino, «conquistato» il 14 luglio 1865 dal ventenne studente londinese Edward Whymper, assieme a quattro connazionali e due guide di Zermatt. Famoso soprattutto per il fatto che in una soleggiata giornata di mezza estate tra i ghiacciai scintillanti e le vette rocciose prive di vento il trionfo si trasforma repentinamente in tragedia. Vittoria e sconfitta, felicità e disperazione racchiudono l’essenza di quell’epopea, colpiscono la fantasia dei lettori che dalle città ne leggono i resoconti. Guardano con terrore alle stampe di Gustav Dorè la sequenza degli ultimi minuti sulla cima. Gli alpinisti ubriachi di gloria che agitano le braccia al cielo. E le loro grida di scherno agli italiani condotti dalla guida di Cervinia (allora chiamata Breuil) Jean-Antoine Carrel, che scornato a poche decine di metri dalla vetta decide di tornare indietro pur di non arrivare secondo. Ma poi ecco il celebre ritratto del rovinoso precipitare di quattro corpi tra i vincitori per oltre mille metri sino al ghiacciaio inferiore. Vero archetipo romantico degli incubi degli scalatori. Da allora il sopravvissuto Whymper non sarà mai più lo stesso. Le sue meste considerazioni pubblicate qualche anno dopo per mettere in guardia contro gli entusiasmi azzardati e le conseguenze indelebili di scelte sbagliate restano un memento per tutti gli amanti degli sport estremi. Ma certo non fermano la gara al «sesto grado», specie sulle Dolomiti appena dopo la Prima Guerra Mondiale. E non quella per le «pareti nord», causa prima delle decine e decine di giovani morti, specie tedeschi e austriaci, per aggiudicarsi l’Eiger. Hitler aveva persino promesso un premio in denaro a chi, tra i rampolli delle scuole di alpinismo nazionali, avesse passato per primo i ghiacciai pensili, le rocce friabili e vetrate dell’immenso versante settentrionale.
Fa specie che prima della fine dell’Ottocento, mentre ancora le Alpi presentavano «infiniti problemi da risolvere», come si dice in gergo per indicare le vie vergini da salire, già qualcuno pensasse seriamente ai giganti dell’Himalaya. Ci riflettono i soliti inglesi, forti del regime coloniale, che per primi misurano tra l’altro le altezze di Everest e K2. A noi piace pensare che il giovane George Mallory sia salito sulla cima più alta della Terra già nel giugno 1924, ben 29 anni prima di Edmund Hillary. Ma è quasi certamente un’illusione, una leggenda. Sul suo corpo, trovato nel 1999 a circa 8.000 metri d’altezza, nulla è stato scoperto che possa indicare la riuscita della spedizione. Dopo di lui fu l’era delle grandi carovane di sherpa, delle corde fisse e delle bombole di ossigeno. Solo negli anni Settanta, quando Reinhold Messner rompendo ogni tabù dimostrò che era possibile andare oltre quota ottomila senza ossigeno e in «stile alpino», è tornata in auge l’idea della sfida solitaria e «ad armi pari» con le grandi altezze. E così i «problemi da risolvere» si sono moltiplicati all’ennesima potenza. Le sfide restano più attuali che mai.