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 2013  dicembre 31 Martedì calendario

L’ANNO IN CUI MORÌ IL SALOTTO BUONO


Sì, è vero, nel 2013 abbiamo visto cose impensabili: l’arresto della famiglia Ligresti in blocco, l’esplosione del Monte dei Paschi di Siena, la Fiat che vende meno auto che nel 2012, l’avvitarsi della crisi Ilva, l’ennesimo tentativo di bancarotta dell’Alitalia, la danza sul baratro della casta dei banchieri, sorda ai richiami del governatore Ignazio Visco.

Eppure nulla di tutto ciò meriterebbe di essere scolpito su una lapide – a simbolo dell’anno che termina e insegnamento per i posteri – quanto la frase pronunciata il 21 giugno dall’amministratore delegato di Mediobanca, il quarantottenne Alberto Nagel: “Essere associati a partecipazioni di minoranza vuol dire distrarre il management e il brand della banca dal business core. La redditività di gruppo negli ultimi anni è stata incisa in negativo dalla svalutazione dell’equity”. Basta una traduzione in italiano corrente per capire la più feroce autocritica – o se preferite la più desolata dichiarazione di resa – mai venuta dai cosiddetti poteri forti. Nagel quel giorno ha annunciato che Mediobanca avrebbe rinunciato in tre anni a 2 miliardi di “partecipazioni”, cioè al pilastro del sistema di potere creato dal fondatore, Enrico Cuccia. Pacchetti azionari di minoranza, ma non sempre (Mediobanca è tuttora il primo azionista delle Assicurazioni Generali), decisivi per consentire alle famiglie storiche dei capitalisti senza capitali di mantenere il comando sulle società e fare gli imprenditori con i soldi degli altri. Nagel ammette che Mediobanca (a sua volta controllata dai soliti noti dei “salotti buoni”) ha sacrificato a un disegno di potere i soldi degli azionisti di minoranza. Mettete dirigenti al posto di management, e capirete che la “distrazione” consiste nel fare le operazioni che procurano premi a fine anno anziché vantaggi all’azienda. Mettete marchio al posto di brand e capirete quanto è costato avere banche percepite da imprese e risparmiatori come ostili cupole di potere. Mettete azioni al posto di equity, e capirete che molti piccoli azionisti di Mediobanca si stanno ancora chiedendo in nome di quale teoria economica fu deciso nel 2007 di bruciare centinaia di milioni di euro sull’altare della “italianità” di Telecom.

IL PERDURARE DELLA CRISI esplosa nel 2008 ha messo in mutande il capitalismo di relazione, l’ossimoro che rappresenta i cosiddetti imprenditori intenti a difendere un potere basato sulla negazione del mercato. Proprio alla vigilia della crisi, nell’aprile 2007, l’economista Mario Monti, ancora lontano dall’ingiustificata ambizione napoleonica di migliorare gli italiani, denunciò dalle colonne del Corriere della Sera i pericoli di un capitalismo “bancocentrico”, dominato da banchieri convinti “di dover operare nell’interesse generale”. Basta decidere che salvare l’azienda dell’amico indebitato corrisponde all’interesse generale, perché magari si sventa il dramma della disoccupazione di una fedele segretaria, e il gioco è fatto.

Il 2013 resterà come l’anno in cui – anche grazie alle inchieste giudiziarie – è arrivata la resa dei conti per i conflitti d’interesse di un capitalismo asfittico in cui tutti sono complici e nessuno fa concorrenza a nessuno. Salvatore Ligresti è stato arrestato insieme alle figlie Jonella e Giulia, il 17 luglio, per l’accusa formale di falso in bilancio, e così la vicenda Fonsai è diventata il simbolo dello spolpamento dell’azienda da parte del presunto padrone. Presunto, perché un capitalismo costituzionalmente dedito all’appropriazione indebita si basa su un equivoco: ti presenti come padrone, ma in realtà grazie a imbrogli noti come scatole cinesi e patti di sindacato hai magari il 5 per cento delle azioni. Anche un bambino saprebbe calcolare l’architrave del capitalismo di relazione dei “mister 5 per cento”: se rubo 100 euro alla “mia” azienda mi metto in tasca 100 euro, se li lascio al loro posto mi arriveranno maggiori guadagni per 5 euro. È il teorema di cui la Procura di Trieste si occupa – non per interventismo giudiziario, ma su richiesta di Consob e Ivass – a proposito dei sospetti affari delle Assicurazioni Generali con alcuni azionisti eccellenti. Il faro l’ha acceso il nuovo ad Mario Greco, che come Nagel sta organizzando la fuga dalla nefasta logica dei salotti.

Tanta fretta è comprensibile. Nulla funziona più come prima. Le banche prestano soldi per ragioni di potere, poi devono salvare il creditore per salvare il proprio credito (è il caso di Alitalia), oppure, sempre per ragioni di potere, diventano azioniste di aziende amiche alle quali poi prestano soldi, diventando creditrici di se stesse (caso Ntv-Italo). Il caso che tutto riassume è quello che chiude l’anno: Monte Paschi, con un azionista di controllo, la Fondazione Mps, che dichiara pubblicamente di sentire il dovere di anteporre i propri interessi a quelli della banca controllata. C’è un piccolo problema: è un reato. Nonostante gli scossoni del 2013 qualcuno ancora non l’ha capito. La strada verso una seria cultura del mercato è ancora lunga, ma sicuramente il 2014 ci porterà (purtroppo) nuove lezioni esemplari.