Luis Hernández Navarro, il manifesto 2/1/2014, 2 gennaio 2014
Nella comunità Emiliano Zapata, nel caracol Torbellino de Nuestras Palabras, 30 famiglie zapatiste lavorano in forma collettiva
Nella comunità Emiliano Zapata, nel caracol Torbellino de Nuestras Palabras, 30 famiglie zapatiste lavorano in forma collettiva. Possiedono in comune una piantagione di caffè, orti e circa 350 capi di bestiame. I suoi abitanti non ricevono aiuti governativi di nessun tipo, ma il loro livello di vita è molto meglio di quello dei villaggi priisti dei dintorni. Nella comunità c’è un piccolo negozio comunale i cui guadagni sono destinati alle opere di cui necessita il villaggio. Lì, come in tutte le altre regioni ribelli, le risorse delle cooperative servono per finanziare opere pubbliche come scuole, ospedali, cliniche, biblioteche o condotte per l’acqua. In tutto il territorio ribelle fiorisce un sistema autonomo di benessere basato su una riforma agraria de facto che privilegia l’uso comunitario di terre e risorse naturali, sul lavoro collettivo e sulla produzione di valori d’uso e in pratiche di commercio equo sul mercato internazionale. Nelle zone di influenza zapatista si è sconfitta la legge di San Garabato, che impone che i contadini debbano comprare a caro prezzo le merci di cui hanno bisogno e vendere a buon mercato i loro prodotti. Succede spesso che i coyote (intermediari commerciali abusivi) siano obbligati a pagare alle basi di appoggio ribelli per i loro raccolti, bestiame ed articoli artigianali, prezzi più alti di quelli che offrono alle comunità non organizzate. Le cooperative zapatiste hanno acquisito un vero parco di autoveicoli per spostarsi e trasportare la loro produzione. Nelle comunità ribelli è nata una coscienza ambientale. Si pratica l’agricoltura biologica ed è stato bandito l’uso di fertilizzanti chimici. Si effettuano lavori per proteggere i suoli. C’è una preoccupazione genuina e generalizzata per conservare boschi e selve. Come segnalano gli autori del libro Lotte molto altre: zapatismo e autonomia nelle comunità indigene del Chiapas: «le sfide della sostenibilità nella riproduzione comunitaria sottolineano la tensione tra la necessità di sussistere dentro lo schema socioeconomico esistente e il progetto di trasformazione di questo schema». Quello che lì si profila è, più che un modello economico zapatista, un processo endogeno e diverso delle priorità delle comunità, come alternativa alla sottomissione alla logica distruttrice del capitale transnazionale. Nei 27 municipi zapatisti non si beve alcool né si coltivano stupefacenti. Si esercita la giustizia senza l’intervento del governo. Più che sulla punizione, si pone l’accento sulla riabilitazione del trasgressore. Le donne hanno conquistato posizioni e responsabilità poco frequenti nelle comunità rurali.La rete di infrastrutture comuni di educazione, salute, agricoltura biologica, giustizia ed autogoverno che gli insorti hanno costruito al margine delle istituzioni statali, funziona con la propria logica, plurale e diversa. Le comunità zapatiste hanno formato centinaia di promotori di educazione e sanitari e di tecnici agricoli, secondo la loro cultura e identità. Tutto questo è stato possibile perché gli zapatisti si governano da se stessi e si autodifendono. Costruiscono l’autonomia senza chiedere permesso in mezzo a una campagna permanente di contrainsurgencia. Resistono alla perenne persecuzione di 51 distaccamenti militari e di programmi assistenziali il cui intento è creare divisioni nelle comunità in resistenza offrendo briciole. Tuttavia, alla fine di quest’anno si è scatenata una campagna di diffamazione che sostiene che niente di tutto questo è vero. Falsamente, si dichiara che gli zapatisti oggi vivono peggio di 20 anni fa, che distruggono l’ambiente e che dividono le comunità. Si tratta dell’ultimo episodio di una guerra sporca vecchia quanto la sollevazione stessa. Le calunnie non reggono. Centinaia di testimonianze pubbliche dimostrano che le accuse contro i ribelli non hanno niente a che vedere con la realtà che i calunniatori diffondono. Per esempio, il pittore Antonio Ortiz, Gritón, è stato nella comunità di Emiliano Zapata tra l’11 ed il 16 agosto di quest’anno, nell’ambito della escuelita zapatista, e ha documentato l’esperienza vissuta in un commovente racconto diffuso su Facebook. L’ha sorpreso vedere che 30 famiglie indigene possedevano 350 capi di bestiame. Il pittore faceva parte di un gruppo di 1.700 persone che, ad agosto di quest’anno, hanno partecipato alla prima escuelitazapatista. Vi hanno partecipato anche Gilberto López y Rivas e Raúl Zibechi, i quali, dalle pagine de La Jornada, hanno condiviso le loro riflessioni. Lo stesso ha fatto la giornalista Adriana Malvido su Milenio, e la ballerina Argelia Guerrero su pubblicazioni alternative. Tutti hanno constatato in maniera diretta come vivono, lavorano, si istruiscono, si curano e pensano le comunità zapatiste. Per quasi una settimana i 1.700 invitati sono stati trasportati, ospitati e nutriti dai loro anfitrioni nelle comunità in cui hanno vissuto. Ognuno è stato accompagnato da un quadro zapatista che rispondeva alle loro domande e dubbi sulla loro storia, lotta ed esperienza organizzativa e traduceva dalle lingue indigene allo spagnolo. Questa esperienza si sta ripetendo questo fine d’anno e si ripeterà all’inizio del 2014. Un’iniziativa educativa di questa grandezza, che presuppone una pedagogia diversa da quella tradizionale, si può reggere solo sull’esistenza di comunità con una base materiale capace di accogliere gli invitati, di un’organizzazione con la destrezza e disciplina necessarie a realizzare un progetto così ambizioso, e migliaia di quadri politici con la formazione adeguata per spiegare la loro vita quotidiana e la loro proposta di trasformazione sociale. Dal basso, gli zapatisti stanno cambiando il mondo. La loro vita oggi è molto diversa da quella di 20 anni fa. È molto meglio. Negli ultimi due decenni si sono dati una vita degna, liberatrice, piena di significato, al margine delle istituzioni governative. Non lo stanno facendo in poche comunità isolate, ma in centinaia, distribuite in un ampio territorio. Da questo laboratorio di trasformazione politica emancipatrice c’è molto da imparare e di cui ringraziare.