Mario Boccia, il manifesto 2/1/2014, 2 gennaio 2014
MOLHEM BARAKAT, MORTO SUL LAVORO
Si chiamava Molhem Barakat, era nato a Istanbul e aveva 17 anni. Era bravo a fare le foto ed era diventato un collaboratore della Reuters. E’ morto ad Aleppo, la città dove viveva, il 20 dicembre scorso, mentre fotografava uno scontro tra gruppi ribelli e l’esercito siriano all’ospedale Kindi (i ribelli accusano i regolari di avere trasformato l’ospedale in una caserma e per questo lo avevano attaccato).
Questa è la notizia nuda; una lunga didascalia sotto la foto di un ragazzino sorridente, in posa con la macchina fotografica con il teleobiettivo bianco, concessagli in uso dalla Reuters.
Ma è davvero tutto qui? Nel breve articolo uscito su Repubblica on-line c’è un’informazione importante: Barakat prendeva 100 dollari per dieci foto trasmesse al giorno. A conti fatti sono 10 dollari a foto, più un bonus nel caso che qualcuna fosse pubblicata su testate importanti.
Molti commentatori su carta e in rete, hanno copia-incollato con variazioni minime la stessa notizia d’agenzia. Qualcuno ha sbagliato la traduzione e “barracks”, per troppi, è diventato “barricate” invece che “caserma”. Pazienza per la descrizione dei fatti, purché ci sia abbondanza di pseudo-poesia nei pezzi: “sorriso già adulto su un volto di bambino”, “riccioli neri”, “sogno infranto”, “morire per una passione”, “ritraendo vita e morte della sua gente ne era la coscienza”, fino al top: “Lui è rimasto lì, piccolo e uomo insieme, accompagnato da un’arma micidiale che ora giace ricoperta del sangue del suo soldato”. Ancora: “Molhelm e la storia si sono tenuti per mano, egli è stato i suoi occhi, monito futuro per le guerre che inesorabilmente verranno. È stato il ragazzino che con le sue immagini ha mostrato il mondo che vorrebbe malgrado tutto, riuscendo a catalizzare l’attenzione sull’innocenza fanciullesca che si ritrova protagonista nel terrificante teatro della morte”.
Oltre ai produttori di pessima letteratura, ci sono giornalisti che sanno fare il loro mestiere. Sui siti e giornali inglesi, per esempio. Rai News 24 se n’è accorta e ha rilanciato, esprimendo dubbi sul ruolo della Reuters nella vicenda, ma ormai la notizia è fredda e Barakat ha fatto l’ultimo regalo ai suoi datori di lavoro: la sua faccia e la galleria delle sue foto, pubblicate ovunque.
Molhem Barakat e quelli come lui sono fuori dal sistema di difesa dei diritti e della tutela della sicurezza sul lavoro, che pure ci appassiona, tanto che nessuno si pone domande a riguardo. Questo è un indicatore culturale del paese che siamo diventati. La proposta di collaborazione di una major dell’informazione diventa “un’opportunità di coronare un sogno” e non suggerisce altre riflessioni.
Al contrario, il giornalista Corey Pein, nel suo blog dall’Inghilterra, arriva a porsi 19 domande, tutte piuttosto imbarazzanti per la Reuters. Ne aggiungerei solo una se non fosse inutile perché viola la privacy dell’azienda e altri principi sacri: quanto ha guadagnato la Reuters sul lavoro di Barakat?
In tutti i conflitti recenti, i collaboratori locali sono presenze utili per le agenzie di stampa, perché costano poco e rendono molto. Possono essere bravi, ma è bene che non lo diventino troppo, perché devono restare gregari. Niente polizze di assicurazione, corsi di sopravvivenza, giubbotti antiproiettile, elmetti, alberghi, autisti, telefono satellitare etc. Niente riscatto e complicazioni diplomatiche in caso di sequestro. 10 dollari a foto, tutto incluso. Se dal loro lavoro esce una copertina prestigiosa, si accontentano di un piccolo bonus e il resto è profitto per l’agenzia. Le cifre che guadagnano sono parametrate al costo della vita, che in Siria è basso, cioè pari al valore della vita stessa (dei suoi cittadini).
Che Molhem Barakat sia apertamente schierato dalla parte dei ribelli è un vantaggio, perché seguendo suo fratello combattente può arrivare dove altri non potrebbero. Basta averne un altro come lui dall’altra parte e (se questo fosse un problema) l’obiettività è garantita. Che ci siano foto di combattimenti costruiti ad arte, fa parte del gioco. Anzi, saperlo fare è utile. Quante foto di combattenti in atteggiamenti improbabili abbiamo visto e chi è in grado di riconoscerle, al di fuori di pochi addetti ai lavori? E quante ne ricordiamo? (scivolano via senza lasciare tracce, simili nella riproposizione di cliché già visti in qualsiasi conflitto, si confondono tra loro; ma questo è un altro discorso)
Che sia troppo schierato, invece, un problema potrebbe porlo. Di sicurezza, ad esempio, anche per gli altri colleghi. La giornalista e fotografa inglese, Hannah Lucinda Smith, sostiene di aver conosciuto Molhem Barakat la prima volta che andò ad Aleppo, tanto da esserne diventata amica. Racconta di averlo visto “trasformarsi da ragazzino entusiasta a giovane uomo pieno di problemi, fermamente convinto di voler diventare un combattente islamico di Al Queda”. A maggio scorso lo scrisse in un articolo: “il mio amico, aspirante terrorista suicida”. Lo chiamò Jusuf, nel pezzo, per “proteggerlo da quello che lui stesso stava dicendo”. Poi cercò di convincerlo ad andare via da Aleppo, di scappare in Turchia, senza riuscirci.
Poi Molhem non è più entrato in Al Queda, ma ha scelto la Reuters. Se si sia trattato di una scelta di campo, del prevalere di una passione o della voglia di emulare giornalisti e fotografi, non lo sapremo mai. Aveva diciassette anni. Sul suo profilo Facebook c’è Katy Perry tra i cantanti preferiti; gli stessi gusti musicali di mio nipote, boy scout di nove anni.
In un contesto di guerra niente è normale. La guerra non è “igiene del mondo”, ma fogna a cielo aperto. Quella siriana lo è particolarmente, per l’intreccio di interessi che l’hanno determinata. Domenico Quirico, raccontando la sua esperienza di sequestrato su La Stampa, ci regalò una cronaca preziosa. Ogni dettaglio di quel racconto giustificava la sua presenza da inviato sul campo. Ma questa guerra, particolarmente pericolosa e difficile da raccontare, è stata più spettacolarizzata che analizzata. C’è un deficit di inviati, poche inchieste, poca descrizione e accertamento di fatti e molto “io narrante”, con pahtos dilatato. C’è anche scarso interesse del pubblico, e questo è un altro indicatore sociale grave che riguarda i modelli culturali dominanti (l’eccesso di pathos-egocentrico può essere conseguenza del tentativo di produrre una merce di successo).
Non c’è da stupirsi se la voglia di protagonismo di un adolescente possa sbandare tra un fucile mitragliatore e un’attrezzatura fotografica da 10.000 dollari in concessione d’uso. Niente è più normale in guerra, o forse tutto è più palese, inclusa la brutalità del mercato. Molhem voleva esistere, affermarsi o semplicemente guadagnare qualcosa. Le offerte di mercato per un diciassettenne ad Aleppo erano quelle (oppure poteva scappare e finire nel CIE di Lampedusa?).
La Smith confessa, con amarezza, di non averlo cercato quando è tornata ad Aleppo, ossessionata che una sua parola raccolta da una persona sbagliata potesse metterla in pericolo di sequestro. Una prudenza comprensibile. In passato le aveva scattato una foto: lui ha una mano fasciata dopo una caduta in motorino. Sembra un ragazzo della sua età. Scrive ancora che Molhem le aveva chiesto di lavorare insieme, ma che lei aveva sempre rifiutato per la responsabilità che non sentiva di prendersi nei suoi confronti. Alla Reuters devono aver pensato diversamente.
Restano le sue foto e la voglia di vederne altre, soprattutto quelle lontano dalla prima linea. Da fotografo penso che sia soprattutto da quelle immagini che esce fuori la passione autentica di Molhem Barakat per la fotografia. Chi si ferma a scattare una foto al venditore ambulante di cibo, con il carretto tra le macerie di Aleppo o ai bambini che giocano dove possono, doveva poter crescere e fotografare ancora (o crescere e basta, facendo quello che gli pare).