Alessio Schiesari, Il Fatto Quotidiano 2/1/2014, 2 gennaio 2014
L’ULTIMA RESISTENZA CONTRO LA DOMENICA DELLO SHOPPING
Una coda di auto lunga più di un chilometro, il parcheggio di 18 mila metri quadrati al collasso e 2 mila persone che aspettano l’apertura dei cancelli. L’evento che, domenica 24 novembre, ha mandato in tilt Mestre è l’apertura di una nuova ala della galleria commerciale Auchan. Secondo la proprietà, a fine giornata i visitatori sono stati 45 mila, il doppio degli spettatori del derby calcistico del giorno prima. Eppure, osservando la gente che esce dalle porte scorrevoli, di carrelli colmi se ne vedono pochi. La maggior parte dei clienti gironzola qualche ora ma paga solo un caffè o uno spritz. La nuova liturgia della domenica pomeriggio è possibile grazie all’articolo 31 del decreto Salva Italia approvato nel gennaio 2012 dal governo Monti. La norma è quella sulla liberalizzazione del commercio, che ha sottratto la disciplina degli orari degli esercizi commerciali agli enti locali e ha reso possibili aperture domenicali, notturne e durante i festivi.
Appena entrato in vigore il Salva Italia, alcune catene hanno lanciato campagne di assunzioni destinate agli studenti. In cambio del lavoro domenicale offrivano compensi tra i 300 e i 400 euro al mese, quanto basta per pagare l’affitto di una stanza in una grande città. A distanza di quasi due anni, complice la crisi, il meccanismo sembra essersi bloccato. Sandro Brazzo, direttore di un supermercato del gruppo Rossetto del centro commerciale Il Faro a Rovigo, mostra quattro faldoni che sembrano scoppiare: “Sono i curricula che ho ricevuto nel 2013. Assessori, sindaci, parroci: quasi ogni giorno qualcuno chiama per propormi una persona”. Il supermercato gestito da Brazzo non ha però assunto nessuno per fare fronte alla dilatazione degli orari. “In compenso, si fanno più ore di straordinario e, su 62 commessi, 60 hanno dato la loro disponibilità a lavorare la domenica”. Federdistribuzione, l’associazione dei big del settore fuorché Coop e Conad, parla di appena 2500 nuove assunzioni in due anni, più della metà part-time.
Il lavoro è meno pagato di quanto sembra
Cristiano è stato assunto da una Coop di Modena per lavorare nei week-end: dalle 20 alle 24 il venerdì e il sabato, dalle 15.30 alle 20 la domenica. La paga è generosa: 600 euro al mese per dodici ore di lavoro la settimana. Eppure dice: “Vorrei cercare un lavoro da abbinare a questo: qualcosa con un orario d’ufficio. In teoria sarebbe compatibile, ma il supermercato mi chiede di essere sempre disponibile per eventuali urgenze. Una volta non ho risposto a una chiamata e me lo rinfacciano ancora. Quindi, di avere anche un lavoro ‘normale’, non se ne parla”. Il contratto nazionale prevede un 30 per cento di indennità per chi lavora la domenica, una percentuale che a Mediaworld arriva al 90 per cento, alla Coop al 100. Ma c’è anche chi non percepisce nessun compenso aggiuntivo. Una commessa di un punto vendita Sisley racconta: “Lavoro la domenica e riposo un giorno durante la settimana, ma in busta paga scrivono il contrario per non pagare il salario extra”. Anche gli accordi di secondo livello che riconoscono le indennità più generose sono a rischio. Il segretario nazionale di Filcams Cgil, Maria Grazia Gabrielli, spiega: “Le aziende vogliono ammortizzare i costi e stanno cercando, in sede di rinnovo contrattuale, di pagare le domeniche come un giorno qualsiasi”.
Sugli effetti del Salva Italia il fronte datoriale è diviso: le associazioni della grande distribuzione difendono a spada tratta le liberalizzazioni, i piccoli negozianti sono sulle barricate. “I costi sono cresciuti del 18 per cento, il fatturato del 6. Per tenere aperto la domenica ho dovuto assumere una persona per il week-end: ho un piccolo negozio e ammortizzare lo stipendio in più è un problema”, spiega Davide, titolare di una rivendita di tendaggi per la casa in un grande centro commerciale del Polesine. Confimprese, l’associazione che raggruppa 96 grandi reti di franchising, ammette che i costi per il personale sono aumentati dal 6 al 30 per cento. Una forbice ampia, in cui le dimensioni del negozio sono inversamente proporzionali alla crescita dei costi: per i più piccoli lo sforzo è maggiore. Anche questo, insieme alla congiuntura economica, aiuta a spiegare la crisi del piccolo commercio: 36 mila esercizi in meno e 65 mila posti di lavoro persi dall’entrata in vigore del Salva Italia, secondo Confesercenti. La grande distribuzione invece è compatta a favore delle aperture domenicali: “È il secondo giorno della settimana per incassi dietro al sabato: mediamente vale il 23 per cento del fatturato”, spiega il presidente di Confimprese Mario Resca. Eppure, secondo i dati Confimprese Lab - Istituto Nielsen, negli ultimi undici mesi il fatturato dei supermercati è sceso del 3,64 per cento. “Ma – spiega Resca - senza le liberalizzazioni questo dato sarebbe stato peggiore e le ricadute sull’occupazione pesanti”. Marcello Cestaro, proprietario di circa 150 supermercati, ha provato a rinunciare alle aperture festive. A maggio la sua Unicomm ha lanciato “Operazione buona domenica”, che prometteva di tenere chiusi i punti vendita l’ultimo giorno della settimana. “I nostri collaboratori devono poter trascorrere tempo con le famiglie”, scriveva l’azienda. Ma a settembre i supermercati di Cestaro hanno riaperto sette giorni su sette. “Gli altri distributori si sono avvantaggiati della nostra scelta”, si è giustificata l’azienda. Se per i supermercati è un problema di concorrenza, per i negozi dei centri commerciali l’apertura domenicale è un obbligo. “Il supermercato è come un condominio: chi ha più metri quadrati decide anche per gli altri. E per chi non si adegua sono previste multe”, spiega Luca Zani, proprietario di una tabaccheria del centro commerciale GrandEmilia a Modena.
La rivolta di parroci e comitati benedetti da Francesco
Piccoli esercenti e commessi si sono organizzati in comitati locali poi riunitisi sotto lo slogan Domenica No Grazie. Nati in Toscana, oggi i gruppi più attivi sono in Veneto, Emilia Romagna, Lombardia e Puglia. I sostenitori dei vari gruppi nati sul territorio sono circa 15 mila, in contatto tra loro via Facebook. Forse perché il settore tradizionalmente è poco sindacalizzato, agli scioperi preferiscono i flash mob. Secondo un sondaggio di Federdistribuzione, la maggior parte degli italiani non è però d’accordo con la loro crociata: il 65 per cento è favorevole alle liberalizzazioni e anche la metà di chi si dice contrario non rinuncia a fare la spesa la domenica. Nel 1995 un referendum sulla liberalizzazione delle aperture dei negozi era stato bocciato dal 62 per cento degli italiani. I comitati continuano a organizzare mobilitazioni, dalla giornata dei parenti ai flash mob delle commesse in mutande. Il colpo grosso però l’hanno fatto grazie a un bambino di 7 anni che, per lamentarsi del fatto che i genitori la domenica lavorano, ha scritto addirittura al Vaticano. E Papa Francesco gli ha risposto. Secondo i comitati, il pontefice avrebbe addirittura promesso ai genitori del bimbo di “intercedere presso il governo”. Prima di Bergoglio altri importanti prelati, il patriarca di Venezia in testa, si erano schierati con i comitati e Confesercenti e la stessa Cei ha dato il proprio supporto. “Fare la spesa la domenica non è peccato, è miseria umana”, attacca il responsabile pastorale per gli stili di vita, don Gianni Fazzini. Quando Confesercenti e i comitati hanno cominciato a raccogliere firme per una legge di iniziativa popolare che tornasse a disciplinare le aperture festive, decine di parroci hanno concesso il sagrato della loro chiesa per i banchetti. Le firme raccolte sono state 150 mila e il disegno di legge è in discussione alla commissione Attività produttive della Camera.
La proposta di Confcommercio prevede che tornino a essere gli enti locali a decidere quando e come i negozi possono aprire. Anche il Movimento 5 Stelle ha presentato un suo disegno di legge ancora più restrittivo: massimo dodici aperture domenicali durante l’anno. Il Pd ha presentato una fumosa bozza di riforma dell’articolo 31, nonostante due anni fa avesse votato compatto l’approvazione della norma sulle liberalizzazioni. Anche gli enti locali danno battaglia: subito dopo il Salva Italia, sette regioni (dal Veneto di Zaia alla Toscana di Enrico Rossi, passando per la Lombardia al tempo ancora guidata da Formigoni) hanno presentato ricorso alla Corte costituzionale. Nonostante la Consulta abbia dato loro torto, gli altri enti locali, Comuni in testa, hanno continuato ad approvare decine di ordinanze che limitano gli orari di apertura, provocando altrettanti ricorsi al Tar da parte dei supermercati. Tra convinzione e convenienza, il fronte di chi si oppone ai negozi sempre aperti continua a crescere: Anci, vescovi, grillini, Lega Nord e Cobas. Eppure la domenica al centro commerciale si fatica a trovare parcheggio.