Paolo Mastrolilli, La Stampa 2/1/2014, 2 gennaio 2014
CHEN, IL CINESE CHE VUOLE COMPRARSI IL NEW YORK TIMES
Una volta Chen Guangbiao ha cercato persino di vendere aria fresca in lattina. Si trattava di una trovata mediatica per pubblicizzare le cause ambientaliste che gli stanno a cuore, ma aiuta ad inquadrare l’eccentricità del personaggio. Ora però ha puntato gli occhi sul «New York Times» e a quanto dice fa sul serio. Vuole comprare «il giornale più influente al mondo», o quanto meno raggiungere una quota azionaria che gli permetta di influenzarlo, per «contribuire alla pace». Poco importa che l’attuale editore della «Signora in grigio», Arthur Sulzberger jr., risponda che il quotidiano di Manhattan non è vendita: «Tutto si può comprare - replica sicuro Chen - se il prezzo è giusto».
Secondo la «Hurun Rich List», il magnate cinese, nato nel 1968 da una famiglia povera di Jiangsu, possiede un patrimonio di 800 milioni di dollari ed è una delle 400 persone più ricche nel suo Paese. Ha fatto i soldi attraverso una compagnia di riciclaggio, la Jiangsu Huangpu Renewable Resources Utilization, e ha utilizzato la natura del proprio business per darsi una statura politica. Come prima cosa, infatti, ha sposato l’ambientalismo. Il 30 gennaio dell’anno scorso, ad esempio, si è presentato nel centro di Pechino durante una giornata in cui lo smog era particolarmente soffocante, e ha iniziato a vendere lattine di aria fresca per 5 yuan, ossia 80 centesimi. Si poteva scegliere tra sapori tipo «Limpido Tibet» o «Taiwan post-industriale» e lo scopo provocatorio non ha bisogno di essere sottolineato. In passato aveva fatto grandi donazioni dopo il terremoto di Sichuan e lo tsunami in Giappone e ha promesso a Bill Gates e Warren Buffett di regalare tutti i suoi averi entro la morte.
Il 10 ottobre del 2012, invece, si è vestito di verde e ha regalato 43 auto ambientaliste a persone della provincia di Nanjing Jiangsu, cantando sui tetti mentre le distribuiva. Motivo della donazione: compensare gli automobilisti che si erano visti distruggere le loro macchine di fabbricazione giapponese durante una protesta contro Tokyo. Questo aiuta ad inquadrare anche il suo nazionalismo, che si è espresso in maniera lampante quando nell’agosto scorso è intervenuto sulla disputa della isole Diaoyu o Senkaku, contese appunto dalla Cina al Giappone. Chen ha acquistato una mezza pagina di pubblicità sul «New York Times» per affermare che quegli isolotti sono sempre appartenuti a Pechino e a lei devono tornare. «Dopo questa iniziativa - ha detto - ho capito che l’influenza del “Times” nel mondo è incredibilmente vasta. Ogni governo e ambasciata fa attenzione a ciò che dice». Da qui gli deve essere venuta l’idea di prendersi il quotidiano per «creare un’immagine più positiva, contribuire alla pace e a rendere il mondo un posto migliore».
Il piano di Chen è chiaro: vuole rastrellare un miliardo di dollari per acquistare una quota di controllo o comunque una forte influenza sul giornale. A questo scopo si è rivolto ad imprenditori amici. Il 5 gennaio verrà a Manhattan per discutere la sua proposta con gli amministratori del «Times», anche se la portavoce Eileen Murphy ha detto di «non avere conferme di questo incontro».
L’operazione sarebbe assai complicata, e non solo per questioni di immagine. Sulzberger dice che il giornale non è in vendita, e comunque in base alle ultime valutazioni in borsa l’intero gruppo vale 2,4 miliardi. Inoltre il pacchetto azionario è diviso in due categorie: i titoli di classe A, che si possono rastrellare sul mercato ma non danno il controllo della compagnia, e quelli di classe B, che governano la «Signora in grigio» ma sono saldamente nelle mani di Sulzberger e degli altri eredi di Adolph S. Ochs.
Chen, però, sostiene che tutto ha un prezzo e, in tempi di magra per l’editoria, il suo progetto potrebbe avere un certo appeal economico. L’obiettivo, infatti, è portare l’edizione inglese e cinese del quotidiano in ogni edicola della Repubblica popolare. Se si considera che sta parlando del Paese più popolato al mondo, con oltre 1,3 miliardi di abitanti, è chiaro che le prospettive per le vendite si fanno interessanti. Finora il «Times» ha incontrato grandi difficoltà a Pechino, al punto di essere censurato perché aveva pubblicato articoli critici sulla leadership. Chen, però, è convinto di poter cambiare questo rapporto e rilanciare la distribuzione, senza compromettere l’integrità giornalistica della testata.
Che poi gli Stati Uniti, oltre a vendere la maggior parte del loro debito alla Cina, vogliano cederle anche uno dei principali simboli del proprio «soft power», è un altro discorso. Le campagne condotte da Chen, ad esempio sulle Senkaku, fanno dubitare che avrebbe l’obiettività venerata come le Tavole della legge al «New York Times». Del resto come potrebbe funzionare il suo piano senza la benedizione della leadership della Repubblica popolare? Lui, comunque, non si scoraggia: «Se l’accordo con il “Times” fallirà, troverò un altro grande media americano con cui realizzare il mio sogno».