Guido Ceronetti, La Repubblica 2/1/2014, 2 gennaio 2014
1914: QUALCOSA DI PIÙ DI UN ANNIVERSARIO
Ma, a una generazione ignorantissima di storia, abbrutita di presente, privata di ancoraggi morali, che cosa racconteremo perché educhi e s’imprima? Se la memoria di una immensa vergogna e di uno spaventoso regresso di civiltà possa educare positivamente chi ne ignora tutto, perfino l’epoca e il nome. Qualche luogo comune posso incaricarmi di toglierlo, fin da ora, io. Ed è luogo comune stupirsi che tra una così fantastica rete di prospere relazioni commerciali, monarchie imparentate, classi rivoluzionarie ultrapacifiste, un simile Evento abbia potuto verificarsi. Sussiste tuttora la fede cieca che, stabilendo fruttuose intese commerciali e industriali con reciproca convenienza, si assicuri tra due o più paesi un futuro di pace. E allora c’erano, le buone relazioni, e le ferrovie collegavano migliaia di stazioni, e i passaporti stavano diventando superflui, e le Expo Universali sventolavano di vessilli che annunciavano fraternità imperiture...
Però. Il Destino aveva alzato, nell’ombra, un bell’Asso di Picche. E quell’essere umano evolutissimo, raffinato bene, che si rifletteva nel libro Cuore, già spesso col bagno dentro casa, acqua corrente, sapone Pears, covava una ineffabile sete di barbarie e di imbarbarimento. I letterati scalpitavano perché il nichilismo senza più Dio si purgasse in un lavacro di sangue smisurato, riempito d’ideale romantico, che avrebbe incoronato, detronizzato il Sacro precedente, la Vita. Prima di essere scavata freneticamente con le pale, la Trincea era là.
Difficile poter credere che l’uomo sia libero di scegliere tra bene e male. Prima del 1914, Freud aveva impartito lezioni sul sadomasochismo e il fantastico cetaceo meccanico, il Titanic, era colato a picco in tre ore nella notte atlantica. Mettiamo insieme un gran mazzo di segni e di presagi e comprenderemo che la guerra era inevitabile.
Il sogno era finito, la parola alla mitragliatrice.
Che cosa sia la volontà popolare è da lasciare a chi crede di saperla interpretare. Il susseguirsi delle dichiarazioni di guerra furono altrettante esplosioni di giubilo nelle capitali europee. Stefano Zweig racconta l’indifferenza di Vienna per l’assassinio degli Arciduchi a Sarajevo il 28 giugno, perché Francesco Ferdinando, poveretto, era un erede al trono dei più maleamati, mentre il grande beneamato era stato Rodolfo, quello della leggenda di Mayerling, suicida nel 1888. Ma quando, un mese dopo, ci fu l’ultimatum della Serbia, la risposta popolare fu entusiastica, e frenesia di indossare l’uniforme pervase le case benestanti, i ragazzi respinti dai distretti ritentavano disperati.
Degli arruolati volontari tra i diciotto e i venti, bravi in latino e matematica, ma digiuni di mitragliatrici Maxim (brevetto americano), in tutta Europa ne sopravvissero pochi. Del gruppo di otto diciottenni tedeschi, di cui narra la storia Eric Maria Remarque, condotti dal professore predicante del distretto, nessuno. Si pensava che fosse una vergogna restare vivi e non disprezzare la vita (suicidio di Carlo Michelstaedter nel ’10, di Georg Trakl, lettera alla madre di Giosuè Borsi prima dell’accatto dell’Isonzo). Piaceva immolarsi: una sacralità nuova in Europa. L’unico figlio di Rudyard Kipling, respinto per forte miopia e gracilità di costituzione, mise in croce il padre perché lo raccomandasse in alto, volendo ad ogni costo partire. Rudyard lo accontenta; King George lo prende, la reclutina Jack Kipling è subito spedita, vista di talpa, nell’inferno di Loos, Fiandre, insieme ad altri neoarruolati del 1915... E dopo due o tre giorni è dato disperso, probabilmente reso irriconoscibile da un proiettile, per il perpetuo strazio del padre. Furono innumerevoli i non ufficialmente morti e per anni le famiglie li aspettarono. Have you news of my boy Jack?, è il gemito in versi di Kipling un anno dopo. Oh, dear, what comfort can I find? Toccò a lui, pensando al suo mai ritornato, dettare la scritta per le croci e le lapidi dei caduti non identificabili: Known Unto God.
L’enorme numero dei dispersi in tutte le nazioni impegnate e la repentinità delle morti, spesso dello stesso villaggio, o quartiere o istituto, diedero vita a un fenomeno unico: il diffusissimo ricorso alle medium e ai tavolini spiritici. «Dove sei? Perché non scrivi? Quando torni? Che cosa ti trattiene?». A volte, nelle giovani donne, l’ansia mascherava il desiderio che il disperso non tornasse affatto, avendo incontrato ben lontano dai fronti, un imboscato da amare. (La storia emblematica di un amore di guerra senza guerra è Il diavolo in corpo di Raymondo Radiguet). Era forte, nelle classi colte, l’influenza delle società teosofiche e antroposofiche: il corpo eterico, sfuggito al cannoneggiamento che dissolveva la carne, era sciolto da ogni servitù militare: di qui l’incredulità nella realtà della morte e la speranza tenace che quei caduti nel furore degli anni, corpi disincarnati, avrebbero risalito, finita la guerra, o il giorno, la notte dopo, il fiume senza ritorno.
La guerra italiana gronda memorie e narrazioni in Italia, e di conseguenze funeste, ma gli storici europei non l’avrebbero notata se non ci fosse stato Caporetto. Davvero fu una grazia! Seicentomila morti, e un anno meno di guerra – un’inezia! Liddell Hart nella sua celebre History of the First World War dedica 6 pagine, sei, a Caporetto; e il Piave, mah, chissà dove si sarà ficcato... Fortunati almeno in letteratura di vissuto storico e retrospettivo: Gadda, Comisso, Piovene, Silvestri, Omodeo... Mio padre, quando gli feci leggere Isonzo 1917 di Silvestri si era sentito vendicato. Era stato uno di quei poveri sfiniti fanti che avevano passato a guado, col fucile sulla testa, il Piave in piena. Mezzo secolo dopo la smobilitazione, gli fu elargita la pensione: sessantamila lire che andava a ritirare alle Poste tornandosene raggiante. Anche da questo capisci che non si vive, né mai vivremo, di solo pane.