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 2014  gennaio 02 Giovedì calendario

PERICOLI, IL RITRATTO DEL PAESAGGIO


Spesso, si è elogiata la finezza letteraria di Tullio Pericoli: la sapienza con cui, servendosi di un tratto agile e nervoso, egli riesce a far affiorare i moti dell’animo celati dietro i lineamenti dei volti di scrittori e poeti. In tanti, hanno lodato l’abilità di questo solitario e raffinato artista-archeologo, il quale, recuperando la tradizione della fisiognomica, nei suoi ritratti-racconto, sa disseppellire il lato meno visibile di caratteri e temperamenti, mostrando facce spiate «dall’interno», senza temere la deformazione, la de-figurazione, il grottesco. In pochi hanno colto la vocazione registica di Pericoli. Che emerge con forza da un recente volume nel quale sono radunati i suoi paesaggi eseguiti dal 1971 a oggi (I paesaggi , Adelphi, pp. 488, e 36). Un libro che, nel collegarsi alla precedente raccolta adelphiana dei ritratti, forma un vasto dittico. Non si tratta di una mera raccolta di dipinti e disegni. Siamo dinanzi a un progetto più complesso. All’apparenza, un originale museo immaginario. Un’auto-pinacoteca dove Pericoli ha catalogato i suoi cicli in ordine cronologico: legate a circostanze occasionali, le diverse tavole sono disposte rispettando l’epoca nella quale sono state realizzate.
Dietro il suo metodo di allestimento, si nasconde una segreta intenzione. Basta sfogliare questo volume per assistere al comporsi di un vero storyboard , il cui protagonista è il paesaggio, inteso come impasto di natura antica e di civiltà avanzante, non scalfito da alcuna presenza umana. Un quasi-film muto, basato sul ricorso ad alcune tecniche cinematografiche: l’inquadratura, che consente di isolare alcuni frammenti del reale; la messa in scena, che indica l’attimo in cui si indugia su un determinato lembo di mondo; l’«esposizione», che permette di porre in rilievo alcuni elementi dell’insieme; e la «chiusura», che riconduce la vastità del visibile all’interno di una sorta di cornice.
Cineasta involontario, Pericoli tratta ogni tavola come un fotogramma, che accosta ad altri fotogrammi. Sovente, indulge in lunghi piani sequenza. Adotta calibrati montaggi, oscillando tra il bianco e nero e il colore. Senza temere stacchi ed elisioni, si sposta dalle morbide pianure dell’Italia centrale ai concitati scenari di metropoli come New York. Ama divagare. In alcuni momenti, sembra «girare» al rallentatore. In altri momenti, insegue le riprese sintetiche e il colpo d’occhio. In altri momenti ancora, si abbandona a torsioni e ad attraversamenti. Un po’ come accadeva nel cinema delle origini, spesso, interrompe l’affabulazione pittorica con brevi «pause» poetiche: aforismi e versi (di autori come Stendhal, Nietzsche, Simmel, Rilke, Pessoa, Lévi-Strauss, Borges, Melotti, Zanzotto, Calvino) indicano uno stacco nel plot e, insieme, evocano le ragioni sottese alle sue scelte pittoriche.
Si succedono disinvolti esercizi di riscrittura visiva, nei quali Pericoli sembra far proprio un suggerimento di Italo Calvino, che, in uno dei suoi ultimi testi, si era interrogato sulle «ipotesi» di rappresentazione del paesaggio. Dapprima, secondo Calvino, occorre delimitare un fazzoletto di territorio. Poi, bisogna andare da un punto all’altro, scorrere tra angolazioni diverse, moltiplicare i punti di vista, distendere lo spazio nel tempo, transitare attraverso vari scorci, far vedere la realtà mentre ci spostiamo. Infine, trasformare l’opera in una pianura solcata dai diagrammi di «io in movimento che descrive un paesaggio in movimento».
Forse sulle orme di queste parole, Pericoli sperimenta diversi «rituali» dello sguardo. Nel corpus centrale del suo quasi-film, pratica soprattutto primi piani e avvicinamenti. Si affida all’orizzontalità della percezione, per disciplinare ciò che ha dinanzi a sé. Attento a salvaguardare il piano della leggibilità, tende a classificare e a distribuire vari episodi secondo precisi rapporti di coesistenza. Il paesaggio gli si offre ancora come un testo governato da una grammatica chiara.
Questo equilibrio viene trasgredito nel prologo e nell’epilogo del libro, che arrivano quasi a coincidere. Le investigazioni geologiche dei primi anni Settanta e le distese più recenti sembrano continuarsi. E rivelano il talento visionario di Pericoli, il quale mira qui a rendere fantastico e irriconoscibile ciò che esiste. Ricorrendo sia a vedute sotterranee che a riprese verticali e a volo d’uccello, si consegna a una specie di nomadismo visivo. Registra brusii, collisioni, intervalli. Spesso, dispiega figurazioni ulteriori: simmetrie affermate e subito violate. Dipinge con un misto di leggerezza e di impeto, incurante di ogni verismo, fino a giungere in una zona franca, dove si confondono naturalismo e astrattismo. Il suo segno si fa semplificato. Le sue immagini diventano balenanti, discontinue. Il paesaggio, ora, gli si manifesta come una cartografia dissonante, incompiuta. Una cosmogonia, che può essere pronunciata solo attraverso insinuazioni, cenni. Uno spazio instabile, praticato, incrinato da conflitti, da tragitti incoerenti, da segmenti in contrasto tra loro: come una lingua parlata. Un luogo destinato a dissolversi in una fitta drammaturgia di linee spesse e di colori materici. Per cogliere il senso di questo storyboard , potremmo richiamarci a Walter Benjamin che, nel Diario moscovita , scriveva: «Si conosce un oggetto solo quando se ne è fatta l’esperienza in quante più dimensioni è possibile. Bisogna essere affacciati su una piazza da tutti e quattro i punti cardinali per conoscerla a fondo (…). Altrimenti essa ci capiterà di fronte del tutto all’improvviso per tre, quattro volte, prima di capire dove ci si trovi».