Marzio Breda, Corriere della Sera 2/1/2014, 2 gennaio 2014
IL QUIRINALE E QUELLA «CIRCOLARE» PER DIRE NO AL SECONDO MANDATO L’OBIETTIVO DELLA PRIMAVERA 2015
Quanto in là potrà proiettarsi il «tempo non lungo» che Giorgio Napolitano si assegna in questo secondo mandato al Quirinale? I confini cronologici della sua seconda esperienza da presidente li ha indicati lui stesso, nel messaggio dell’altra sera, liquidando l’ipotesi (fin dall’inizio comunque mai considerata) di un altro settennato pieno. La sua speranza prevede un orizzonte più limitato. Di lasciare cioè l’incarico quando avrà visto «decisamente avviato un nuovo percorso di crescita, di lavoro e di giustizia per l’Italia e almeno iniziata un’incisiva riforma delle istituzioni», anzitutto quella sul sistema elettorale. Il che significa superare l’anno che è appena cominciato e attestarsi sulla primavera del 2015 come periodo plausibile per un turn over al vertice della Repubblica.
Questo è dunque il limite che il capo dello Stato si autoattribuisce. Purché — ha avvertito nel messaggio agli italiani dell’altra sera — la logica del «tutti contro tutti che lacera il tessuto istituzionale e la coesione sociale» non annichilisca prima il governo di Enrico Letta, «disperdendo i benefici del lavoro compiuto». Sarebbe l’ennesima occasione mancata. Nel qual caso, ha ripetuto giorni fa a qualche interlocutore, nessuno può dare per scontato che il capo dello Stato sciolga le Camere e mandi i cittadini alle urne. Potrebbe invece dimettersi lui, subito, lasciando a questo Parlamento la scommessa di eleggere il proprio successore entro un paio di settimane.
Ecco perché il 2014 sarà un anno cruciale per Giorgio Napolitano. L’anno durante il quale potrà vedere se si fanno sul serio le cose concrete di cui c’è bisogno e potrà, insomma, verificare «come butta» la legislatura. Sa bene, il presidente, che ci vuole una spinta morale e «coraggio» da parte di tutti, per archiviare la stagione «pesante e inquieta» che abbiamo alle spalle. Come il coraggio che — lascia intendere — ha avuto pure lui otto mesi fa. Quando, spiega, «di fronte alla pressione esercitata su di me da diverse e opposte forze politiche perché dessi la mia disponibilità a una rielezione, sentii di non potermi sottrarre a un’ulteriore assunzione di responsabilità», accettando la ricandidatura. È uno snodo decisivo delle contestazioni e polemiche di cui è divenuto bersaglio negli ultimi tempi.
Un passaggio che, recrimina, «qualcuno finge di non ricordare» adombrando scenari dal suo punto di vista insopportabili: che abbia cioè tramato per restare sul Colle e che in quella partita sia comunque stato il candidato del solo Silvio Berlusconi. Vale perciò la pena di ricostruire la verità completa di quei giorni, così come qualche volta l’ha rievocata lui stesso con qualche amico.
Tre giorni prima che il Parlamento cominci a votare per il nuovo inquilino del Quirinale, il 15 aprile, Napolitano invia una lunga lettera riservata a Bersani, Monti e Alfano. Cinque pagine per sgombrare ogni equivoco sulla rielezione che diversi emissari già gli avevano chiesto: sarebbe «una soluzione di comodo, una non soluzione», scrive, senza contare che darebbe una grave dimostrazione d’impotenza politica. Una lettera diversa, e sempre di indisponibilità la spedisce al segretario del Pd, invitandolo a usarla come «circolare» per i parlamentari democratici. Due prove documentali, come si direbbe in un processo, delle sue volontà. Propositi poi travolti, oltre che dalla paralisi prodotta da un risultato elettorale senza veri vincitori, dalla «processione» sul Colle dei leader della maggioranza: da un Berlusconi angosciato alla prospettiva che al Quirinale vada chissà chi, a un Bersani che teme l’implosione del suo stesso partito, a un Monti deluso dalla performance della propria formazione politica.
La versione completa dei fatti è questa, per quelle giornate cariche di «pericoli» per un «vuoto di governo e vuoto al vertice dello Stato». Ed è pertanto comprensibile lo scatto d’orgoglio che il presidente si è concesso nel discorso di fine anno per rompere l’assedio attraverso il quale un certo fronte (al quale aderisce anche quel Cavaliere che lo aveva scongiurato di restare) mira ora a delegittimarlo. Così si spiega il suo basta con «il dibattito urlato». Basta con la «ridicola storia» che accredita sue «pretese di strapotere personale», da novello monarca. E su chi in ogni caso volesse insistere nelle accuse, ha lasciato cadere un avvertimento esplicito: «In assoluta tranquillità di coscienza non mi lascerò condizionare da campagne calunniose, da ingiurie o minacce».
«Nessuno può crederci», è il suo esorcismo. Per rafforzare il quale ha avuto l’idea di «far parlare» gli italiani attraverso le lettere che quotidianamente riceve. Tante lettere. Di gente che si sfoga e denuncia un malessere sociale non più sostenibile. Persone che non chiedono nulla, ma evidentemente continuano a fidarsi di lui.