Davide Vannucci, Linkiesta 1/1/2014, 1 gennaio 2014
LA MALEDIZIONE DELLE RISORSE IN AFRICA
Prendete il Sud Sudan. Anni di guerra civile con il governo di Khartoum, poi, finalmente, l’indipendenza. Scaramucce di confine, un conflitto economico e diplomatico ancora aperto. Motivo del contendere, il petrolio. A dicembre un’altra guerra, questa volta interna, i Dinka contro i Nuer, il presidente Salva Kiir contro il suo ex vice, Riek Machar, defenestrato a luglio. Massima posta in palio, la regione di Unity, quella dei pozzi di oro nero.
Spostatevi ad Ovest, in Repubblica Centrafricana, maggioranza cristiana, minoranza islamica. A marzo i Seleka, un’alleanza composita di milizie musulmane, spodestano il presidente François Bozize. Guerra civile tra i nuovi padroni e le brigate anti-Balaka (anti-machete), create dai cristiani a scopo di autodifesa. I Seleka vogliono gestire in prima persona le risorse del Paese, che si annidano soprattutto nel Nord. Segue intervento dell’Unione Africana e della Francia, sotto l’egida delle Nazioni Unite.
Passate il confine ed entrate nella Repubblica Democratica del Congo, l’ex Zaire (dove si trovano ben ventiquattro famiglie italiane, intrappolate dal blocco delle pratiche di adozione di altrettanti bambini). Un gruppo di guerriglieri ha lanciato un assalto all’aeroporto di Kinshasa e alla sede della televisione di Stato, in nome del misterioso Gideon Mukungubila, probabilmente uno pseudonimo di Joseph Mukungubila, leader religioso ed ex candidato alle elezioni del 2006, vinte dall’attuale presidente, Joseph Kabila. Ma la gamma delle sigle terroristiche, in questo Paese, è tristemente vasta. In sole due province, il Nord e il Sud Kivu, ci sono ben 25 gruppi ribelli. Il più noto è il movimento M23 - sostenuto, si dice, dal vicino Ruanda - che ha recentemente annunciato una tregua e si è detto disposto a colloqui di pace col governo centrale. Nell’area operano anche hutu ruandesi, islamisti ugandesi, milizie popolari. La ragione è semplice: questa zona orientale del Congo è una miniera d’oro, rame, stagno, diamanti. Il sottosuolo è ricco di altri minerali, come il coltan, un elemento indispensabile per tutto il settore dell’industria hi-tech.
Adesso proseguite il viaggio verso dalla Libia: le più importanti riserve di petrolio dell’Africa, nonché il quarto produttore continentale di gas. Un Paese, però, nato a tavolino, unione artificiale di Tripolitania, Cirenaica e Fezzan. Gas e petrolio si trovano prevalentemente in Cirenaica, il potere politico altrove, a Tripoli. Gheddafi, con abilità diplomatica e pugno di ferro, era riuscito a mantenere gli equilibri. Caduto il regime, si è aperto il vaso di Pandora. La Cirenaica vuole un’autonomia che assomiglia tanto all’indipendenza, la Tripolitania non intende mollare la presa su un tesoro così ricco. Le milizie, private e claniche, mai sciolte dopo la fine della guerra civile, prendono possesso dei terminal petroliferi, reclamando una parte più consistente della torta.
La si potrebbe chiamare “maledizione delle risorse”: l’Africa siede su un letto di materie prime, energetiche e non. Ma questi tesori non sono il presupposto di uno sviluppo che crea opportunità e distribuisce ricchezza a tutta la popolazione, in un progetto condiviso. Al contrario, in Paesi avvezzi al dispotismo, in cui la democrazia è ancora acerba, le risorse naturali diventano, in ultima istanza, la vera ragione di conflitti tra gruppi, spesso demarcati secondo linee etniche e religiose.
Il Centrafrica è il paradigma di questo stato delle cose. Una guerra civile che coinvolge cristiani e musulmani - inopinatamente dimenticata dai media internazionali, salvo lodevoli eccezioni - per la quale si è già paventato il rischio Ruanda, ossia l’idea che il conflitto degeneri in un vero e proprio genocidio, come quello che si è verificato alla metà degli anni Novanta nella regione dei Grandi Laghi, di fronte all’inerzia della comunità internazionale. Questa volta la Francia, antica potenza coloniale, ha preso in mano l’iniziativa, raddoppiando il numero dei propri soldati - oggi 1.600 - per proteggere la popolazione civile dalle violenze interreligiose. Le cifre sono spaventose: settecentomila sfollati, su un totale di quattro milioni di persone, mille morti nelle ultime settimane, secondo Amnesty International.
Molti sostengono che le radici del conflitto non siano di matrice religiosa, anche perché cristiani e musulmani in Centrafrica hanno vissuto a lungo in pace. Ma adesso i Seleka - il cui leader, Michel Diotodja, è il capo di Stato provvisorio - hanno lanciato la sfida per il potere, in modo da accedere alla gestione delle risorse energetiche, particolarmente concentrate nel Nord-Est del Paese, dove è insediata la comunità islamica. La Repubblica Centrafricana è ricca di diamanti, oro, petrolio, uranio e legname, su cui si sono scatenati gli appetiti della China National Petroleum, la compagnia di Pechino già attiva nei Paesi vicini, come Congo e Sudan. Secondo Louisa Lombard, un’antropologa che si occupa da tempo dell’area, il conflitto centrafricano ha anche ragioni esogene. Le tensioni tra islamici e cristiani, infatti, sono cresciute negli ultimi anni a causa dei rapporti sempre più stretti tra i musulmani e i loro vicini in Sudan e in Ciad. I rivali dei Seleka puntano il dito soprattutto contro N’Djamena, accusata di voler ipotecare i tesori centrafricani.
Quella del Sud Sudan, invece, è la storia di un successo apparente. Nel 2013 lo Stato più giovane del pianeta, nato per scissione dal Sudan nel luglio 2011, ha conosciuto un vertiginoso balzo in avanti del Pil: più 24,7 per cento. In realtà, il dato è falsato dal blocco dell’anno precedente, quando il Paese era impantanato in un conflitto con l’ex “padrone”. I pozzi di petrolio si trovano principalmente nel Sud, ma gli oleodotti che trasportano l’oro nero passano attraverso il Sudan. La querelle sui diritti di transito - assieme ad alcune questioni di frontiera, come il riconoscimento della sovranità sull’area di Abyei, dove si trovano, guarda caso, risorse energetiche - aveva portato al blocco della produzione di oro nero, che rappresenta la quasi totalità del budget nazionale. Successivamente i due Paesi hanno trovato un’intesa provvisoria, ma a dicembre il Sud Sudan è ripiombato nel caos di un conflitto etnico.
Non è un caso che i ribelli Nuer guidati da Machar abbiano occupato l’area di Unity, ricchissima di giacimenti petroliferi. Molti sospettano che dietro i rivoltosi ci sia la mano del Sudan, che non avrebbe affatto gradito il piano del governo di Juba, volto a costruire un doppio oleodotto, attraverso il Kenya e l’Etiopia, in modo da bypassare le pipeline sudanesi. Alcune fonti parlano di un vero e proprio patto stipulato tra Mashar e il governo di Khartoum per la vendita congiunta del petrolio di Unity.
Sembra uno slogan terzomondista, ma è la realtà dell’Africa di oggi. Si sfoderano machete e kalashnikov in nome del petrolio. E i conflitti energetici hanno il paradossale effetto di bloccare la produzione. A fine 2013 l’output mancato di oro nero ha raggiunto, in tutto il mondo, una media di 3 milioni di barili al giorno. La Libia, dove il processo produttivo è alla mercé delle milizie che impongono la loro legge, rappresenta il caso più emblematico. La Nigeria, dove i guerriglieri del Mend - il movimento dell’emancipazione del Delta del Niger - sfidano il governo e le multinazionali straniere che operano nell’area, è un altro paradigma: sequestri di persona, attacchi alle piattaforme, attentati agli oleodotti.
Come ha sottolineato la società di servizi Ernst & Young, le più grandi scoperte di petrolio e gas degli ultimi due anni hanno riguardato l’Africa orientale, in particolare il Kenya e l’Uganda. Molti ritengono che Mombasa sia uno dei futuribili hub dell’export di idrocarburi. Anche in terre come Etiopia e Congo sono stati trovati giacimenti importanti, ma sinora governi deboli, odi clanici e corruzione hanno impedito che diventassero patrimonio collettivo. L’auspicio è che, con il progressivo rafforzamento dello Stato di diritto, questa bonanza energetica possa essere la leva dello sviluppo, e non la ragione di ulteriori conflitti. Anche gli investimenti stranieri, se i costi della sicurezza dovessero essere eccessivi, potrebbero rivolgersi altrove.