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 2014  gennaio 02 Giovedì calendario

QUANDO SOLA LA DOMENICA ERA SPORTIVA

E alla sera, fu subito gol. La sera del 3 gennaio 1954, domenica, ses­santa calendari fa. La data semi­nale del primo giorno in cui l’Ita­lia ha conosciuto la televisione, quella apparente, inspiegabile magia che l’avrebbe ipnotizzata. Alle 23, minuto più, minuto meno, fu già tem­po buono per la prima Domenica Sportiva. Nessuno studio, nessun conduttore, solo fil­mati commentati assai asetticamente: e tra questi, uno relativo al 4-0 con cui l’Inter di Fo­ni campione d’Italia, in un San Siro versione freezer, travolse il Palermo. La prima partita in scatola, che effetto a pensarci adesso, milioni di reti dopo, con il pallone che rotola in alta de­finizione tra mille tasti di telecomando. In realtà, il vero “primal scream”, l’urlo primor­diale del calcio catodico è uno Juventus-Milan rimasto nelle antologie, 7-1 rossonero con Nor­dahl capace di mandare ai matti Parola fino a provocarne l’espulsione. Era il 6 febbraio 1950, a Torino era insediato il centro di produzione sperimentale della Rai: dopo una complessa progettazione, vai con le telecamere sui ca­mion dei vigili del fuoco e via allo stadio, dove a raccontare tutto non ci sarebbe stato il totem Nicolò Carosio, ma Carlo Bacarelli, poi a lun­go colonna della redazione milanese. Nessu­no vide o sentì, i televisori erano fantascienza pura semplicemente perché non esisteva an­cora il contenuto da infilarci dentro.

Ma la strada era tracciata, ed è arrivata fino a qui, sessant’anni dopo: il calcio, grazie alla te­levisione, si è preso l’Italia, ma gli interessi ap­plicati dalla televisione al calcio sono stati alti per non dire esosi, visto che non è per nulla i­perbolico o farneticante dire che la tv ha pre­teso per sé il calcio stesso. Tutto, proprio tutto, è ormai pensato in fun­zione dello schermo nemmeno più così pic­colo: calendari, orari, divise, formule dei tor­nei. Per non parlare del fattore primo e condi­zionante della sopravvivenza di gran parte dei club rappresentato dai ricchissimi emolumenti ricevuti - via Lega Calcio - dai grandi network televisivi, principale voce attiva del fatturato di tutti. Normale, matematico forse che que­sta nemesi abbia portato alla cri­stallizzazione del pro­dotto calcio-tv dal punto di vista della crea­tività pura, non certo da quello tecnologico.

Le risorse ancora modeste e la necessità di as­secondare le tradizioni apparentemente non sradicabili del nostro pallone hanno prodotto nella prima parte del viaggio pezzi di leggen­da che appartengono non solo alla storia del­la televisione, ma anche e soprattutto a quella del costume.

La Domenica Sportiva - è scritto - è l’origine della specie, ma si pensi a 90° Minuto, al teso­ro di Mondiali, Olimpiadi, finalissime, cam­pionati raccontati da voci diventate di famiglia come quelle di Nando Martellini, Bruno Pizzul, Paolo Rosi, Adriano De Zan, o quelle di San­dro Piccinini, Bruno Longhi, Dan Pe­terson, Fabio Caressa quando la tv italiana ha scavalcato lo steccato di mamma Rai.

Si pensi alla moviola, un teorico uovo di Co­lombo per stabilire altrettanta teorica giu­stizia, talmente teorica al punto che nem­meno al sorgere del 2014, con documen­tazione ipertecnologica della partita, si è riusciti a farla diventare parte integrante della partita. L’occhio del video per deci­dere cosa è corretto e cosa no non ha an­cora superato lo sbarramento di un certo potere del calcio: eppure, già in una lontana domenica autunnale del 1967, a Carlo Sassi e alla banda della Domenica Sportiva bastaro­no una telecamera fissa in tribuna a San Siro e il fido Heron Vitaletti a mandare morbida­mente avanti e indietro il “pizzone” del derby tra Inter e Milan per stabilire che no, quel tiro di Rivera sbattuto sulla faccia interna della tra­versa e rimbalzato verso il campo non era gol, e che il pari era dunque fasullo. Sono passati 46 anni, e quel gol-non-gol del Gianni nazio­nale è stato alla fine la prima pietra di un altro tipo di telecalcio, amato e odiato, criticato, cri­ticabile e apparentemente inevitabile, quello costruito sui veleni, sulla polemica, stappata dalla vera o presunta analisi critica e accom­pagnata in più di un caso verso una caciara molto tifosa: eppure, questi 60 anni non pos­sono prescindere da un Aldo Biscardi, o da un Maurizio Mosca, giornalisti con una storia im­portante capaci di reinventarsi personaggi, pri­mi nomi sulla locandina dello spettacolo. Og­gi, anche al netto di un “processismo” edulco­rato, riveduto e corretto (salvo che sulle tv pri­vate, dove è ancora di salvezza contro lo stra­potere dei diritti televisivi altrui), ogni evento di calcio in Italia può essere rappresentato in un altro tipo di cartellone teatrale, persino da­vanti a teatri - leggasi stadi - che si stanno svuo­tando.

Altri sport di prima grandezza - si pensi al ba­sket e al tennis nascosti, al ciclismo degli infi­niti tapponi dei weekend - soffrono di più di un malessere contratto nell’ultima fetta di questi 60 anni di rapporto con la televisione. Al cal­cio, apparentemente immune per troppa po­polarità, potrebbe andare anche peggio: e non c’è più, negli studi televisivi, un Vitaletti pron­to ad azionare il rewind.