Andrea Saronni, Avvenire 2/1/2014, 2 gennaio 2014
QUANDO SOLA LA DOMENICA ERA SPORTIVA
E alla sera, fu subito gol. La sera del 3 gennaio 1954, domenica, sessanta calendari fa. La data seminale del primo giorno in cui l’Italia ha conosciuto la televisione, quella apparente, inspiegabile magia che l’avrebbe ipnotizzata. Alle 23, minuto più, minuto meno, fu già tempo buono per la prima Domenica Sportiva. Nessuno studio, nessun conduttore, solo filmati commentati assai asetticamente: e tra questi, uno relativo al 4-0 con cui l’Inter di Foni campione d’Italia, in un San Siro versione freezer, travolse il Palermo. La prima partita in scatola, che effetto a pensarci adesso, milioni di reti dopo, con il pallone che rotola in alta definizione tra mille tasti di telecomando. In realtà, il vero “primal scream”, l’urlo primordiale del calcio catodico è uno Juventus-Milan rimasto nelle antologie, 7-1 rossonero con Nordahl capace di mandare ai matti Parola fino a provocarne l’espulsione. Era il 6 febbraio 1950, a Torino era insediato il centro di produzione sperimentale della Rai: dopo una complessa progettazione, vai con le telecamere sui camion dei vigili del fuoco e via allo stadio, dove a raccontare tutto non ci sarebbe stato il totem Nicolò Carosio, ma Carlo Bacarelli, poi a lungo colonna della redazione milanese. Nessuno vide o sentì, i televisori erano fantascienza pura semplicemente perché non esisteva ancora il contenuto da infilarci dentro.
Ma la strada era tracciata, ed è arrivata fino a qui, sessant’anni dopo: il calcio, grazie alla televisione, si è preso l’Italia, ma gli interessi applicati dalla televisione al calcio sono stati alti per non dire esosi, visto che non è per nulla iperbolico o farneticante dire che la tv ha preteso per sé il calcio stesso. Tutto, proprio tutto, è ormai pensato in funzione dello schermo nemmeno più così piccolo: calendari, orari, divise, formule dei tornei. Per non parlare del fattore primo e condizionante della sopravvivenza di gran parte dei club rappresentato dai ricchissimi emolumenti ricevuti - via Lega Calcio - dai grandi network televisivi, principale voce attiva del fatturato di tutti. Normale, matematico forse che questa nemesi abbia portato alla cristallizzazione del prodotto calcio-tv dal punto di vista della creatività pura, non certo da quello tecnologico.
Le risorse ancora modeste e la necessità di assecondare le tradizioni apparentemente non sradicabili del nostro pallone hanno prodotto nella prima parte del viaggio pezzi di leggenda che appartengono non solo alla storia della televisione, ma anche e soprattutto a quella del costume.
La Domenica Sportiva - è scritto - è l’origine della specie, ma si pensi a 90° Minuto, al tesoro di Mondiali, Olimpiadi, finalissime, campionati raccontati da voci diventate di famiglia come quelle di Nando Martellini, Bruno Pizzul, Paolo Rosi, Adriano De Zan, o quelle di Sandro Piccinini, Bruno Longhi, Dan Peterson, Fabio Caressa quando la tv italiana ha scavalcato lo steccato di mamma Rai.
Si pensi alla moviola, un teorico uovo di Colombo per stabilire altrettanta teorica giustizia, talmente teorica al punto che nemmeno al sorgere del 2014, con documentazione ipertecnologica della partita, si è riusciti a farla diventare parte integrante della partita. L’occhio del video per decidere cosa è corretto e cosa no non ha ancora superato lo sbarramento di un certo potere del calcio: eppure, già in una lontana domenica autunnale del 1967, a Carlo Sassi e alla banda della Domenica Sportiva bastarono una telecamera fissa in tribuna a San Siro e il fido Heron Vitaletti a mandare morbidamente avanti e indietro il “pizzone” del derby tra Inter e Milan per stabilire che no, quel tiro di Rivera sbattuto sulla faccia interna della traversa e rimbalzato verso il campo non era gol, e che il pari era dunque fasullo. Sono passati 46 anni, e quel gol-non-gol del Gianni nazionale è stato alla fine la prima pietra di un altro tipo di telecalcio, amato e odiato, criticato, criticabile e apparentemente inevitabile, quello costruito sui veleni, sulla polemica, stappata dalla vera o presunta analisi critica e accompagnata in più di un caso verso una caciara molto tifosa: eppure, questi 60 anni non possono prescindere da un Aldo Biscardi, o da un Maurizio Mosca, giornalisti con una storia importante capaci di reinventarsi personaggi, primi nomi sulla locandina dello spettacolo. Oggi, anche al netto di un “processismo” edulcorato, riveduto e corretto (salvo che sulle tv private, dove è ancora di salvezza contro lo strapotere dei diritti televisivi altrui), ogni evento di calcio in Italia può essere rappresentato in un altro tipo di cartellone teatrale, persino davanti a teatri - leggasi stadi - che si stanno svuotando.
Altri sport di prima grandezza - si pensi al basket e al tennis nascosti, al ciclismo degli infiniti tapponi dei weekend - soffrono di più di un malessere contratto nell’ultima fetta di questi 60 anni di rapporto con la televisione. Al calcio, apparentemente immune per troppa popolarità, potrebbe andare anche peggio: e non c’è più, negli studi televisivi, un Vitaletti pronto ad azionare il rewind.