Marco Travaglio, Il Fatto Quotidiano 30/12/2013, 30 dicembre 2013
LA CARRIERA “CONTRO” DEL PM DISOBBEDIENTE
La scena è ambientata nei primi anni ’90, nella tribuna vip dello Stadio Delle Alpi. Derby Juventus-Torino. L’arbitro nega un presunto rigore al Toro. Uno scalmanato tifoso con sciarpa granata e cappello di lana, da cui sbuca un ciuffo bianco, balza in piedi ed esplode in un’invettiva irriferibile contro i dirigenti bianconeri, accusandoli – sai la novità – di comprare gli arbitri. Poi si volta di scatto e scopre, alle sue spalle, il vicepresidente esecutivo della Juventus, Luca di Montezemolo, che se la ride di gusto. Arrossisce imbarazzato, vorrebbe scomparire sotto la poltroncina, chiede scusa, poi si risiede umilmente. Non si sa se autentica o romanzata, è comunque credibile perchè il tifoso scalmanato altri non è se non Gian Carlo Caselli in una delle rarissime circostanze che riescono a spettinarlo: le partite del Toro. E che lo rendono finalmente “normale”. Lui che normale, per cause di forza maggiore, non è quasi mai stato. Basti pensare che è sotto scorta dal lontano 1974, quando aveva 35 anni. E continuerà a esserlo ora che è andato in pensione.
Nato ad Alessandria il 9 maggio 1939, trascorre l’infanzia tra Fubine, Vignale Monferrato e Pinerolo, poi i genitori si trasferiscono a Torino per lavoro. Borgo San Paolo, quartiere ”rosso” e operaio. Il padre Filippo è l’autista di un piccolo industriale. La madre Virginia è dattilografa nella stessa azienda. Famiglia cattolica e di sinistra. Con qualche sacrificio, mandano Gian Carlo a studiare dai salesiani. Prima nel Borgo, poi al Liceo classico Valsalice. Lui li ripaga sgobbando parecchio. È un secchione. “Sempre primo o secondo della classe”, hanno appurato Ettore Boffano e Vincenzo Tessandori nella biografia“IlProcuratore”(Baldini&Castoldi).È“semiconvittore”:mattina in classe, pomeriggio al doposcuola, la sera a casa, ancora a studiare. Salvo le pause, riservate alla fidanzata Laura (che diventerà sua moglie e gli darà due figli, Paolo e Stefano) e alle partite di pallone. Nel luglio del 1957 la maturità. Poi la naja, in Puglia. E il ritorno a Torino per l’università: Giurisprudenza. Gli studi costano: lui arrotonda vendendo porta a porta macchine per scrivere. Segue le lezioni di Giovanni Conso: il suo primo maestro (Caselli non può immaginare che 50 anni dopo l’allievo prediletto Antonio Ingroia lo incriminerà per falsa testimonianza nell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia). La laurea arriva nel marzo ‘64, la tesi s’intitola ”Concubina pro uxore - Osservazioni in merito al c. 17 del primo Concilio di Toledo”: 110 con lode e dignità di stampa. Diventa assistente universitario alla cattedra di Storia del diritto italiano. Negli stessi mesi nasce Magistratura democratica, la corrente progressista del sindacato delle toghe, che diventerà presto la sua. Vince il concorso nel 1967 e nel ‘68 è uditore giudiziario: tirocinante nella stessa sezione del tribunale dove lavora Luciano Violante, che ha due anni meno di lui, ma è entrato in magistratura due anni prima. Lì – racconterà Violante – “io e l’altro giudice a latere mettevamo sempre in minoranza il presidente, quando si trattava di giudicare i ladri d’auto e i poveri cristi: eravamo contrari a pene severe. Una volta il presidente si mise ad urlare in camera di consiglio: ‘Fuori l’uditore, non deve sentire!’. L’uditore era Caselli”. Nel 1970 arriva la prima nomina, all’Ufficio Istruzione. Lì reincontra Violante e un altro giovane magistrato progressista poco più grande di lui: Giangiulio Ambrosini. “Per i vecchi giudici di scuola fascista – ricorderà Ambrosini – eravamo ‘comunisti’, solo perché sostenevamo una giurisprudenza più avanzata”. L’Ufficio Istruzione è capeggiato da un fuoriclasse come Mario Carassi, ex partigiano di Giustizia e libertà, scuola “azionista”. È il primo maestro in toga di Caselli. L’altro è Bruno Caccia, il procuratore capo (che sarà assassinato dalla mafia, ai piedi della collina torinese, nel 1983). Due magistrati piuttosto conservatori, come pure il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, capo del Nucleo speciale antiterrorismo (verrà ucciso da Cosa nostra, ma a Palermo, nel 1982). Eppure i due grandi capi scelgono proprio lui, il giudice ragazzino iscritto a Md, quando si affaccia alle cronache la stella a cinque punte delle Brigate rosse.
Si comincia nel 1974 con il sequestro a Genova del giudice Mario Sossi: la sede competente a indagare è quella di Torino e tocca a Caselli. Che da quel momento è costretto a vivere scortato. Violante indaga sui “destri”, cioè sull’eversione neofascista, ma anche sul golpe-fantasma di Edgardo Sogno. Caselli invece è addetto ai “sinistri”, cioè all’eversione rossa che troppi intellettuali, giornalisti e politici negano financo che esista (le “sedicenti Brigate rosse”). In mezzo ai loro uffici, quello di MarcelloMaddalena, liberal-montanelliano iscritto alla corrente conservatrice Magistratura indipendente (“ero il Cristo tra i due ladroni”, scherzerà). Per il sequestro Sossi, Caselli fa subito arrestare un mito vivente della guerra partigiana, Giovanbattista Lazagna, uomo del Pci genovese, per collusioni col terrorismo. Qualcuno prende a chiamarlo “fascista”, senza sapere che vent’anni dopo lo battezzeranno “toga rossa”. Lui fa semplicemente il suo dovere: Lazagna verrà condannato. Nel 1975 gli uomini di Dalla Chiesa arrestano a Pinerolo Renato Curcio e Alberto Franceschini, i capi storici delle Br, grazie alla celebre ”soffiata” di Silvano Girotto alias “Frate Mitra”, infiltrato dai carabinieri. E tocca proprio al giudice ragazzino, con il procuratore Caccia, interrogare Franceschini. “Sono il giudice Caselli”. “E io sono Franceschini, prigioniero politico”: il terrorista con gli occhiali rifiuta di rispondere, pretende che sul verbale i giudici scrivano “rivoluzionario di professione”. Caselli rifiuta, perde la pazienza, gli dà dell’assassino, “assassino come chi ha ammazzato Mara Cagol” (la compagna di Curcio, morta nel conflitto a fuoco con i militari). Franceschini risponde con un ceffone. Il giovane giudice vacilla, ma non cade nella provocazione: si trattiene, resta impassibile. È un duro, ma negli interrogatori non si limita a fare domande sui reati: vuole capire anche i perché di quella generazione ubriacata dall’ideologia. Mette in discussione tutto, anche le coscienze dei suoi imputati. E spesso li manda in crisi. Nasce a Torino il primo “pool” d’Italia (prima in formazione ristretta: Caselli, Violante e Mario Griffey; poi nella versione allargata a Franco Giordana, Maurizio Laudi e Marcello Maddalena). Un modello a cui s’ispirano ben presto Rocco Chinnici e Antonino Caponnetto per quello di Palermo: quello di Falcone e Borsellino. È proprio Caponnetto a chiamare Caselli per chiedergli spiegazioni sul metodo del pool subalpino: “Come fate ad affidare a più giudici istruttori una stessa inchiesta, visto che per il nostro codice il giudice istruttore è monocratico?”. Caselli ricorda con emozione quella telefonata: “Le primissime inchieste sulle Br erano state assegnate tutte a un solo giudice istruttore, cioè a me: erano le inchieste che avevano al centro i sequestri Labate, Amerio e Sossi, operati dal nucleo storico delle Br. L’idea di formare un pool ci venne in mente dopo l’assassinio del procuratore generale di Genova, Francesco Coco, con i due uomini della scorta. Carassi mi affidò l’inchiesta Coco dicendomi che però, da quel momento, tutte le inchieste di terrorismo sarebbero state assegnate con me anche ad altri colleghi, che inizialmente sarebbero statiGriffeyeViolante:‘Èbenechetunonsiapiùsolo,l’estensionedel terrorismo è sempre maggiore, occorrono più risorse in campo per contrastarlo. E poi, più obiettivi possibili vi sono, minore diventa il rischio per ogni singola persona’. Casomai fosse successo qualcosa a uno di noi, sarebbero rimasti gli altri due ad andare avanti. Come si poteva attribuire a tre magistrati, a tre giudici istruttori contemporaneamente la titolarità di una stessa inchiesta giudiziaria? Il capo dell’Ufficio intestava il processo a se stesso e delegava poi i singoli atti ad altri giudici istruttori. Un’intuizione geniale, prevista dalle norme attuative del codice Rocco, che la Cassazione avrebbe poi sempre sottoscritto. Questo spiegai a Caponnetto, e da allora il pool di Palermo adottò una linea simile alla nostra”.
Dalle Brigate rosse a Cosa nostra
Nasce in quegli anni anche la leggenda rossa che vuole Violante nel ruolo di “mente” e Caselli in quello di “braccio”. “Giancarlo succube di Violante? A parte che ha due anni in più, lui non è mai stato succube di nessuno. Anzi, di una sola persona: se stesso...”, smentirà Maddalena, che l’ha sempre canzonato per due proverbiali caratteristiche: la vanità e la fortuna sfacciata ”tanto nel gioco delle carte quanto nelle indagini e nei processi, almeno negli anni torinesi”. Nel 1975 Caselli è protagonista dell’istruttoria che sfocia l’anno seguente nel maxiprocesso ai capi storici delle Br, in pieno sequestro Moro, in un clima di guerra. I giurati estratti a sorte fra i cittadini per comporre la Corte d’assise inventano mille scuse e si ritraggono l’uno dopo l’altro terrorizzati. E i brigatisti revocano il mandato sia agli avvocati di fiducia sia ai legali d’ufficio per far saltare il processo: finchè il leggendario presidente Guido Barbaro nomina difensore di tutti il presidente dell’Ordine degli avvocati Giulio Croce. Il quale, alla vigilia della prima udienza, viene falciato dai terroristi sotto il suo studio.
Nel 1980, sempre a Torino, in piazza Vittorio Veneto, viene arrestato Patrizio Peci. E anche stavolta, dall’altra parte del tavolo, c’è il giudice dai capelli brizzolati. “Ho deciso di collaborare con la giustizia”, dice Peci. È il primo pentito d’Italia. A Caselli consegna la mappa dell’organizzazione: covi, capi, complici, fiancheggiatori. Ne trascinerà in carcere una settantina. Peci racconta anche una brutta storia che porta l’Ufficio Istruzione di Torino al primo scontro con la politica, quella vera: Caselli – insieme a Carassi, Maddalena, Maurizio Laudi e altri colleghi – chiede la messa in stato d’accusa del presidente del Consiglio Francesco Cossiga. Secondo Peci, il premier democristiano avrebbe avvertito il ministro dc Carlo Donat-Cattin che suo figlio Marco, terrorista di Prima Linea, era nel mirino dei giudici, favorendone la fuga. La Commissione Inquirente per i reati ministeriali salverà il capo del governo a larghissima maggioranza. Poi verrà l’altra “gola profonda” della lotta amata: Roberto Sandalo. Altro pentimento davanti a Caselli & C., altre rivelazioni, altri blitz per quasi 200 arresti. Gian Carlo ormai è un uomo nel mirino. A Torino tentano di fargli la pelle due volte. Molti altri attentati seguiranno in Sicilia. Palermo entra nella sua vita sullo scorcio degli anni 80, quando Caselli (insieme a Maddalena) è membro togato del Csm ed è fra i pochi (l’unico di Magistratura democratica)asostenereGiovanniFalcone nellaguerradeiveleniedeicorvi e nella battaglia (purtroppo persa) per la nomina a capo dell’Ufficio Istruzione al posto di Caponnetto (che sarà invece sciaguratamente rimpiazzato da Antonino Meli, il quale smembrerà il pool). Nel 1990 il nuovo Codice di procedura penale cancella i giudici istruttori, affidando l’esclusiva delle indagini preliminari ai pubblici ministeri, sotto il controllo del gip. Caselli, rientrato a Torino dopo il quadriennio al Csm (1986-’90), diventa presidente della I Corte d’Assise. Nel giugno del ’92, meno di un mese dopo la strage di Capaci, partecipa con Paolo Borsellino a un convegno milanese di “Società civile”. Il giudice siciliano amico ed erede di Falcone ha fretta, già sa che il prossimo morto ammazzato sarà lui. Infatti, prima del termine dei lavori, scivola via verso l’aeroporto, destinazione Palermo. Ma prima d’infilarsi nell’auto blindata spedisce un ufficiale dei carabinieri a comunicare al collega piemontese un messaggio-testamento: “Il dottor Borsellino le manda a dire che non è ancora venuto il momento di andare in pensione”. Sulle prime Caselli rimane perplesso, quasi risentito: presiedere la Corte d’Assise e distribuire ergastoli a terroristi, mafiosi e assassini è tutt’altro che un’attività da pensionati. Ma il 19 luglio, appena giunge notizia della strage di via D’Amelio, ripensa a quelle parole sibilline, quasi profetiche. Borsellino sapeva di avere i giorni contati e l’aveva messo in preallerta. Quasi un’investitura alla successione, una cartolina precetto per una missione da “volontario forzato” a Palermo. E decide: mentre tutti fuggono dalla Sicilia, fa domanda per la Procura di Palermo. Si consiglia con gli amici di sempre: il grande vecchio Alessandro Galante Garrone, e poi Violante, Maddalena, Ambrosini, don Luigi Ciotti. Maddalena accarezza anche lui l’idea di presentare domanda al Csm per la Procura di Palermo. Ma non è il momento di aprire divisioni e spaccature, così cede il passo all’amico, stemperando la tensione di quei giorni terribili con una delle sue proverbiali battute di humour nero, all’inglese, nate dalla complicità e dalla convivenza con la morte ai tempi del terrorismo: “Vai avanti tu. Se poi ti ammazzano, prendo io il tuo posto”. L’ultimo consiglio, quello decisivo, arriva dal figlio secondogenito Stefano, allora diciassettenne: “Dài, papà, si vede che ci vuoi andare. È giusto così. Vai a Palermo e non se ne parli più”. E lui parte per la Città della Morte dove pochi vogliono andare a fare i giudici. La procura è in subbuglio: un gruppo di giovani pm, da Roberto Scarpinato ad Antonio Ingroia, da Teresa Principato a Vittorio Teresi, da Alfredo Morvillo a Ignazio De Francisci, si sono dimessi dal pool antimafia in polemica col procuratore capo Pietro Giammanco, con cui Borsellino s’è scontrato fino agli ultimi giorni di vita, e chiedono la sua sostituzione con “una guida autorevole e indiscussa”. Il Csm approva la nomina di Caselli, bocciando la domanda del più giovanePiero Grasso, e fissa il suo insediamento per il 15 gennaio 1993.
Resta però un ostacolo da superare: quello della politica. Il ministro della Giustizia del governo Amato è Claudio Martelli, socialista rampante, in piena fase di sganciamento da Craxi (già sfregiato ma non ancora inquisito ufficialmente per Tangentopoli), con l’indubbio merito di aver chiamato in via Arenula Giovanni Falcone a lavorare con lui agli Affari Penali. Caselli chiede di incontrarlo nei primi giorni del ’93 insieme con due colleghi impegnati in un delicato processo di omicidio che rischia di saltare e ricominciare daccapo se il presidente dell’Assise dovrà andarsene prima di emettere la sentenza. Insomma, chiedono una proroga di qualche settimana per la “presa di possesso” di Gian Carlo a Palermo. I tre, dopo lunga anticamera, vengono accolti gelidamente dal Guardasigilli, che non fa mistero della sua antipatia perCaselli:luiaPalermoavrebbepreferitoGrasso,chelavoraconluiin via Arenula. E proprio in quel momento si apre una porta dell’ufficio ministeriale e ne sbuca Grasso. Martelli lo presenta a Caselli e agli altri due con queste parole: “Ecco un giudice davvero esperto in cose siciliane”. La tensione si taglia con il coltello. Caselli spiega frettolosamente il perché della visita e chiede la proroga all’insediamento per poter concludere il processo a Torino. Ma Martelli la nega. Così il 15 maggio, con quel bel viatico del governo alle spalle, Caselli si insedia come nuovo procuratore capo a Palermo. Mentre in Procura si festeggia con una frugale bicchierata, giunge notizia che i carabinieri del Ros hanno arrestato Totò Riina. Notizia non del tutto inaspettata, per il neoprocuratore: qualche giorno prima un vecchio e discusso generale dell’Arma, Francesco Delfino, gli ha confidato che qualcosa si muove attorno al capo dei capi, grazie allo strano arresto (a Borgomanero, vicino Novara) e all’immediata collaborazione del mafioso Baldassare Di Maggio, detto Balduccio, subito portato a Palermo per aiutare gli uomini del capitano Ultimo a riconoscere il boss, latitante da quasi 40 anni. Solo anni dopo si saprà che da mesi il Ros sta trattando tramite Vito Ciancimino con i capi di Cosa nostra, prima Riina e poi Bernardo Provenzano. E che quest’ultimo ha fatto avere ai militari alcune mappe con i possibili nascondigli della primula rossa. Ma allora nessuno ne sa nulla. E così, quando il Ros chiede e ottiene da Caselli il rinvio della perquisizione del covo di Riina dietro la promessa di sorvegliarlo giorno e notte, salvo poi abbandonarlo incustodito e inosservato quello stesso pomeriggio, a nessuno viene in mente che ci sia sotto qualcosa di losco. Anche perchè Caselli il vicacapo del Ros, colonnello Mario Mori, lo conosce dai tempi dell’antiterrorismo come uno dei più fidati collaboratori di Dalla Chiesa, e tutto può venirgli in mente fuorchè di sospettare di lui. A Palermo Caselli rimane dal 1993 al 1999. Vive quasi da clandestino in un bunker blindatissimo, con i cavalli di frisia e i sacchi di sabbia. Sfugge a vari progetti di attentato (una volta, per raggiungere Corleone, la scorta lo carica su un’auto issata su una bisarca, lo fa sdraiare sul sedile posteriore e lo copre con un plaid: “Mi sembrò di essere un sequestrato e non il procuratore capo della Repubblica...”).. Ricompatta una Procura a pezzi, rimette in piedi il metodo del pool ormai morto e sepolto da tempo, motiva i giovani sostituti, ottiene risultati strepitosi. La leggenda nera dei garantisti all’italiana vorrebbe far credere da un lato che tutti i politici mandati a giudizio siano stati assolti, dunque vittime di un’orrenda persecuzione politico-giudiziaria; e, dall’altro, che quelli di Caselli a Palermo siano stati anni persi ad acchiappare nuvole e fantasmi, il fatidico “terzo livello” dei cosiddetti “processi politici”. Niente di più falso.
I processi ai politici (ma anche a rappresentanti infedeli delle forze dell’ordine e dei servizi segreti, e a personaggi collusi del mondo degli affari, delle banche, delle professioni, della magistratura, dell’amministrazione regionale, persino del clero) si devono essenzialmente al boom dei mafiosi che, dopo le stragi del 1992-’93, decidono di collaborare con la giustizia, squarciando il velo dell’omertà sulle connivenze degli “intoccabili” (in pochi anni si passa da poche decine a 1500 “pentiti” sotto protezione, rappresentativi di tutte le organizzazioni criminali). E scoperchiando il vaso di Pandora: Giulio Andreotti, sette volte presidente del Consiglio (poi mezzo assolto e mezzo prescritto per il reato “commesso” di associazione mafiosa); Corrado Carnevale, giudice di Cassazione (assolto perchè la stessa Corte ritiene inutilizzabili alcune prove decisive); Silvio Berlusconi (archiviato su richiesta degli stessi pm) e Marcello Dell’Utri (condannato in appello a 7 anni e in parte già definitivamente colpevole per la Cassazione); Bruno Contrada, numero tre del Sisde (condannato a 10 anni); Francesco Musotto, presidente della provincia di Palermo (assolto, a differenza del fratello); Calogero Mannino, ex ministro dc (assolto, ma ora di nuovo a giudizio per la trattativa); altri politici di minore notorietà nazionale come Giudice, Inzerillo e Gorgone, ma pure esponenti della sinistra e delle coop rosse. Anche l’altra leggenda nera, quella del tempo perso a inseguire i politici trascurando l’ala militare di Cosa nostra, è menzogna pura. In quei sei anni e mezzo la Procura di Caselli sequestra beni mafiosi per oltre 10 mila miliardi di lire (5 miliardi di euro). Sventa decine di attentati e omicidi, incamera un numero impressionante di arsenali con armi da guerra di ogni tipo, missili compresi, indaga 89.655 persone di cui 8.826 per fatti di mafia (un decimo del totale, con buona pace di chi sostiene che furono trascurati gli altri delitti). Ottiene il rinvio a giudizio di 23.850 persone, di cui 3.238 per mafia. Ne fa condannare 647 all’ergastolo. A queste vanno aggiunte svariate centinaia di condanne a pene inferiori, da 30 anni di reclusione in giù. Il più alto numero di condanne nella storia di Palermo.
Così come quello dei mafiosi, latitanti e non, catturati. La lista comprende il gotha di Cosa nostra (con l’eccezione dei soli Bernardo Provenzano e Matteo Messina Denaro) e include tutti gli autori delle stragi del 1992 e ’93, poi processati a Caltanissetta e a Firenze. A cominciare da Santino Di Matteo, che nel ’93 inizia a collaborare davanti a Caselli in una stanza della Dia a Roma e svela in un lunghissimo interrogatorio i segreti di Capaci (è il primo protagonista della strage a parlare), pagando un prezzo altissimo: il sequestro e l’assassinio del figlio Giuseppe, strangolato e sciolto nell’acido. L’elenco delle catture eccellenti fa impressione: Totò Riina, Leoluca Bagarella, Giovanni ed Enzo Brusca, Pietro Aglieri, Vito Vitale, Mariano Tullio Troia, Carlo Greco, Nino Gioè, Gioacchino La Barbera, Balduccio Di Maggio, Santino Di Matteo, Salvatore Biondino, Vincenzo Sinacori, Filippo e Giuseppe Graviano, Raffaele Ganci con i figli Domenico e Calogero, Giuseppe e Gregorio Agrigento, Francesco Paolo Anzelmo, Mico Farinella, Giuseppe La Mattina, Natale Gambino, Antonino Mangano, Salvatore Grigoli, Pietro Romeo, Gaspare Spatuzza, Francesco Giuliano, Cosimo Lo Nigro, Fifetto Cannella, Pino Guastella, Nicola Di Trapani, Salvatore Cucuzza, Giovanni Buscemi e tanti altri.
Le leggi contra personam e il ritorno a casa
Scorrendo quei nomi ben si comprende perché Caselli dirà di aver avuto, intorno al 1996, la netta sensazione che lo Stato potesse vincere la guerra a Cosa nostra. E perchè la politica, proprio mentre i primi pentiti iniziavano a parlare di papello, trattativa e mandanti esterni delle stragi, revocherà frettolosamente il mandato alla Procura di Palermo, legandole le mani con una serie di attacchi mirati e di controriforme chirurgiche (le stesse invocate dal papello di Riina del ’92), bloccando il pentitismo e le indagini più scottanti. Così le acque del Mar Rosso si richiuderanno. E comincerà l’eterno, inesorabile riflusso.
Caselli lascia Palermo nell’estate del 1999, qualche mese prima della prima sentenza Andreotti (a causa di un inatteso slittamento del processo). E si trasferisce a Roma come direttore generale del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), chiamato dal ministro Oliviero Diliberto. Nel marzo del 2001 vola a Bruxelles, rappresentante italiano nell’Eurojust, l’embrione della Superprocura europea. Ma dura un solo anno, perchè appena può il secondo governo Berlusconi lo rimpiazza con un giudice amico di Previti. Nel 2002 diventa procuratore generale presso la Corte d’Appello di Torino. A fine 2004 fa domanda per la Procura nazionale antimafia. É il candidato con più titoli e maggiore anzianità di servizio: ma in pochi mesi il governo Berlusconi e la maggioranza di centrodestra approvano ben tre norme contra personam (l’ultima, quella decisiva, poi dichiarata incostituzionale dalla Consulta) per toglierlo di mezzo e favorire l’ascesa dell’altro pretendente, il solito Piero Grasso, più gradito alla politica.
Nel 2008 Caselli diventa procuratore capo di Torino, in staffetta con Maddalena che dal vertice della Procura prende il suo posto come Pg.
Altri grandi successi investigativi, grazie a una squadra di avanguardia (basti pensare alle indagini del pool di Raffaele Guariniello su Calciopoli, Thyssenkrupp, Eternit e Stamina; e a
quelle della Dda sulla ’ndrangheta in Piemonte con infiltrazioni nella politica, anche di sinistra). Ma pure di momenti amari. Per restare fedele ai princìpi e alle convinzioni di sempre, Caselli rompe clamorosamente con Violante, ormai in servizio permanente effettivo sul fronte dell’inciucio anti-giudici. E, per le indagini sui violenti annidati nel movimento No Tav in Val di Susa, perde per strada altri vecchi amici come Beppe Grillo e l’ex giudice Livio Pepino. Fino a dimettersi, dopo 45 anni di militanza, da Magistratura democratica per un articolo di Erri De Luca troppo corrivo con i sabotatori valsusini, sull’agenda della corrente delle toghe di sinistra. Ora che, 21 anni dopo l’appello di Borsellino, “è venuto il momento di andare in pensione”, il magistrato forse più accusato dai suoi detrattori di “fare politica” dovrebbe avere sotto casa la fila dei partiti che gli offrono una candidatura o una carica di prestigio. Invece, al momento, soltanto la Coldiretti gli ha chiesto di collaborare a un progetto contro le “agromafie”. E soltanto il popolo dei 5 Stelle, almeno quello iscritto alle “Quirinarie” online di aprile, ha pensato a lui come candidato al Quirinale. Meglio così. “Certe onorificenze – diceva Longanesi – non basta rifiutarle. Bisogna non meritarle”.