Marco Ansaldo, La Stampa 30/12/2013, 30 dicembre 2013
“DAL TORO AL MARACANÀ ORGOGLIOSO DI ESSERE L’UNICA ALA ITALIANA”
A Firenze favoleggiavano che Alessio Cerci passeggiasse con un gatto al guinzaglio. Ora circola sui social network la foto di un delfino che lo bacia nelle acque di Dubai. Qualche stravaganza bisogna concederla a un calciatore tra i più estrosi del calcio italiano. «L’esperienza di nuotare tra i delfini è stata straordinaria - racconta -. Capisci quanto sono intelligenti, nell’avvicinarsi sembra che provino la nostra stessa emozione. Se è una stranezza, sono contento di averla fatta».
Anche perché ormai si è scollato l’etichetta di talento incostante e dannato. Esordio in A a 16 anni, consacrazione a 26. Non ci ha messo un po’ troppo a esplodere?
«I due o tre anni che coincidono con il tempo perso per recuperare dagli infortuni, soprattutto al ginocchio. Ora sono riuscito a raddrizzare la via».
Mai temuto di non farcela?
«Quando andai all’Atalanta dopo la stagione buona nel Pisa. Non riuscivo a rimettermi fisicamente a posto: non ero quello che volevo e il mio carattere chiuso non aiutava».
Oggi El Shaarawy sta ripetendo la sua stessa esperienza di giovanissimo talento che rischia di bruciarsi.
«L’anno scorso ha giocato una mezza stagione favolosa, poi si è un po’ perso: a 19 o 20 anni non è facile caricarsi di responsabilità e se intervengono gli infortuni tutto si complica. Ha bisogno di crescere senza altre pressioni. La sua stoffa l’aiuterà».
La crisi colpisce soprattutto chi ha grandi qualità. Non è che l’avere talento è diventato un freno nel calcio di oggi?
«Meglio averlo. Però il talento da solo non basta e va allenato ogni giorno al 100 per cento. Lo dico a 26 anni dopo quante ne ho passate. A 20 pensavo soltanto che mi avesse baciato la fortuna concedendomelo».
Per questa ragione gli allenatori la tenevano in disparte?
«Due allenatori, a parte Ventura, mi diedero le opportunità da ragazzo: Capello e Spalletti. Purtroppo al momento giusto per me se ne andarono. Non so perché non piacessi agli altri: nella Roma ero per tutti il più talentuoso del vivaio ma quando mi portavano in prima squadra stavo sempre fuori io. Forse non ero tatticamente il massimo, giocavo più con l’istinto. Un peccato mortale».
Non è un limite esprimersi soltanto con Ventura in panchina?
«Vuol dire che d’ora in poi attenderò che firmi i contratti per andare dov’è lui. Il guaio è che qualcuno crede a questa storia. Ventura ha fatto e fa molto, mi ha trovato la posizione, sa stimolarmi con la fiducia ma cosa faccio in campo lo faccio io».
Lei è l’unica ala del calcio italiano. È un pregio o un handicap?
«Sono orgoglioso del mio gioco e lo considero un pregio però è vero che in Italia ho un piccolo problema: tra le grandi del campionato solo la Roma e il Napoli hanno ali offensive che saltano l’uomo. Le altre, Juve compresa, ci mettono i terzini».
Vuol dire che all’estero l’apprezzerebbero di più?
«Le tre più forti d’Europa, cioè Bayern, Barcellona e Real Madrid, giocano con ali d’attacco e vincono le Coppe. In Spagna, in Germania e soprattutto in Inghilterra la tendenza è di allargare il campo con gli esterni: diciamo che avrei più chance».
Dunque cercherà un contratto all’estero? I suoi tifosi sembrano rassegnati a perderla prima o poi, come se il Toro fosse stretto per lei.
«Qui ho trovato un ambiente e una società che mi hanno dato molto. Però l’ambizione di qualsiasi calciatore al mondo è giocare la Champions League e io sono uno di questi».
Tre possibilità per il 2014: il Toro in Europa League, lei che cambia squadra e lei che va al Mondiale. Quale delle tre è più probabile che si realizzi?
«Che io vada al Mondiale nonostante la concorrenza fortissima. Mancano 21 partite alla fine del campionato, quando Prandelli farà le scelte: devo riuscire a convincerlo».
Non crede che la penalizzi il ruolo nell’Italia senza ali?
«Mi hanno chiesto come vedrei la Nazionale con me, Rossi e Balotelli e ho risposto che la vedrei bene ma qualcuno dovrebbe anche tornare a difendere. Non so se sono fuori dai moduli tattici di Prandelli però quando ho giocato bene mi ha chiamato».
Esordio in azzurro con il Brasile, una presenza al Maracanà nella Confederations. Sono segnali del destino?
«Se bastasse fare 1 più 1 sarei già al Mondiale. Non è proprio così. Comunque l’esordio in amichevole con il Brasile rimane la mia partita più importante perché ebbi il tempo per entrare nel match e fare qualcosa di buono. L’emozione del Maracanà invece resterà il momento più forte: l’avvertivo nel riscaldamento, per 6 o 7 minuti non riuscivo a rompere il fiato con quello che provavo. Conservo molte maglie, quella però la faccio incorniciare».
La sosta può interrompere il momento magico del Toro?
«Non credo che sei giorni di vacanza possano fare più danno del beneficio dato dall’aver staccato la spina».
Cosa è cambiato nel Toro in un anno?
«Il modulo. Battute a parte la società ha fatto qualche acquisto giusto per fare il salto di qualità e la forza la dà il gruppo».
Ogni calciatore elogia il suo gruppo ma i rendimenti sono diversi, segno che la differenza viene da altri fattori. Ad esempio avere punte che segnano come non accadeva da Pulici e Graziani?
«Chiaro che avere gente che segna con continuità è una soluzione a certi problemi. I gol degli attaccanti indicano che una squadra funziona bene e ha chi sa rifinire l’azione».
Il sogno di un Toro di nuovo in Europa è solo un sogno?
«Siamo settimi, giochiamo un buon calcio ma dietro abbiamo Milan, Lazio e Udinese con organico migliore e l’abitudine a stare in alto. Penso che risaliranno e magari qualche altra. Per me l’obiettivo rimane una bella salvezza e poi vediamo. Sono felice che i tifosi riscoprano ambizioni assopite da tempo però i sogni diventano pericolosi se non si sa poi accettare il risveglio».