Stefano Zaino, La Repubblica 30/12/2013, 30 dicembre 2013
LA VITA A 300 ALL’ORA DEL CAMPIONE IN ROSSO
COME lui nessuno mai. A dirlo sono i numeri, impressionanti, l’infinita giaculatoria di record conquistati, 7 titoli mondiali, cinque con la Ferrari, due con la Benetton, 91 vittorie, 69 pole position, 155 volte sul podio.
MICHAEL Schumacher e la Formula Uno, storia di un regno lungo 308 gran premi, dove il pilota più grande di tutti i tempi si è preso il trono e non l’ha praticamente mai mollato, cambiando solo l’abito da cerimonia, prima la tuta azzurra e poi quella rossa. Certo, un fenomeno, probabilmente irripetibile, con due carriere, perché nell’era Schumacher ci sono anche gli ultimi tre anni con la Mercedes, la sua seconda vita da pilota, più dimessa, con pochissima gloria, inevitabile pegno alla sua impossibilità di essere un uomo normale, lento e non rock come direbbe Celentano, uno che non vive di fretta, che non macina tutto a trecento all’ora, ma che si gode la sua leggenda in ciabatte e sul divano, con a fianco la moglie Corinna e i due figli.
Schumacher no, non sa fermarsi. Mai. Anche quando la Formula Uno era il suo unico rischioso mestiere, c’erano sempre altre sfide da affrontare, altre vertigini da sfidare, altri pericoli da vivere, schizzi di adrenalina che hanno messo la sua vita in bilico più della pista e delle monoposto. Paradossale: in auto è sempre stato un fenomeno. Quando decide di posteggiare e scendere, povero lui e poveri noi, come potrebbe dire quel tranquillo abitante del Kent, pedone qualsiasi investito da Schumacher lontano da una pista nell’agosto del 2008, a metà tra la sua prima e la seconda carriera da pilota di Formula 1. Nella sua vita a tutto gas, dove
le medaglie da fuoriclasse si sprecano, con una moltitudine di primati sbriciolati, c’è il rischio che si possa fare largo anche un altro marchio di fabbrica, quello dell’uomo che fa più paura a sé e agli altri quando sconfina dal suo pianeta abituale, gli autodromi in cui ha furoreggiato, e va a giocarsi la vita, con quell’irresistibile voglia di pericolo e adrenalina, nel mondo degli altri.
Ora ha rischiato grosso sugli sci, e forse, nel terribile impatto contro la roccia, ha provato gli stessi pensieri che aveva raccontato nel
1999, al momento dello schianto a 107 all’ora con la sua Ferrari senza freni alla curva Stowe, circuito di Silverstone, l’incidente più terrificante avuto nei suoi anni in Formula 1. Aveva esclamato allora: «Sono fortunato ad essere vivo». Spiegando: «Il mio cuore ha smesso di battere e tutto è diventato nero. Ho pensato che è questo ciò che sentiamo quando stiamo per intraprendere il viaggio verso l’aldilà ». Il viaggio di Schumacher,
sotto choc, all’epoca per fortuna si era limitato ad un veloce trasporto in elicottero con frattura di tibia e perone al vicino ospedale di Northampton, da dove era uscito più forte di prima, con ritorno alle gare 97 giorni dopo e 5 mondiali consecutivi vinti con la Ferrari dall’anno successivo sino al 2004. Si era spaventato a morte, quel giorno, ma almeno quel terrore era figlio del suo mestiere, lautamente pagato. Non così invece l’11 febbraio del 2009, brutta caduta sul tracciato spagnolo di Cartagena, di nuovo l’11 a segnare il suo destino (a Silverstone si era schiantato l’11 luglio), come se la sorte si divertisse ad insegnargli che lui può essere un numero 1, ma non deve esagerare e raddoppiare le sue stravaganze, ma soprattutto diverse le ruote, dimezzate, due e non quattro come quelle della Ferrari, perché Schumacher era in moto, altra grande passione, si cimentava nel campionato tedesco di Superbike e fra una piega e l’altra, durante quei test, voleva imitare il suo amico Valentino Rossi. Finì per terra, micro fratture in testa e alla nuca, guai al collo, dolori difficili da riassorbire e che ai primi d’agosto gli negarono un clamoroso ritorno in Ferrari, per sostituire Massa, schiantatosi a Budapest. Provò il tedesco a Maranello, Montezemolo ci credeva, lui ci sperava, ma dovette arrendersi: «Il collo mi fa troppo male, non regge alle sollecitazioni » commentò amaramente, la leggenda lo respinse e tutto perché si era messo in gioco in un mondo non suo.
Super Michael però è così, mai dire mai, come dimostrarono i successivi tre anni in Mercedes. Ma mai dire mai o «provarci sempre », come ama dire lui, aggiungendo «incrociando le dita», vale per tutto, per i kart, per il pallone (quante volte ha rischiato, non evitando i contrasti anche alla vigilia di un gp, la Ferrari guardava, sospirava e pregava), per le macchine con le ruote coperte (in pista sono comunque sportellate) o per le vetture da strada, con quell’impossibilità di godersi una vita tranquilla, anche perché lui, per notorietà e allori, normale non può mai esserlo. Così diventa un mistero, luglio 2008, anche un botto al Nurburgring con un prototipo sperimentale, sviluppato sulla base della Ferrari 430. La “Bild” racconta che Schumacher sarebbe andato a sbattere a 250 all’ora contro il guard-rail nell’insidiosa Schwedenkruz. Nessun danno fisico, ma auto distrutta e soprattutto senza il tedesco nelle vicinanze. Dov’era finito? C’era veramente lui al volante, oppure il figlio Mick, che allora aveva 9 anni, e che anche stavolta, sulla neve francese, era in sua compagnia? Sul figlio piovono smentite, giurano che non era nemmeno a bordo, e la Ferrari racconta che su quel prototipo Schumacher era presente ma come passeggero. Non c’è mistero invece qualche giorno dopo: il tedesco, mentre nel Kent sfrecciava verso un aeroporto al volante di un Fiat Ducato, prende in pieno una persona in mezzo alla strada. L’investito ha solo una ferita ad una gamba, ma racconta tutto al “Mirror” e la notizia fa il giro del mondo, anche perché la polizia sottopone il pilota ad un test etilometrico, naturalmente negativo. Spericolato, ma atleta vero. Sempre.