Ricardo Franco Levi, Corriere della Sera 30/12/2013, 30 dicembre 2013
SUL SEMESTRE TANTA ENFASI (E POSSIBILITÀ QUASI ZERO)
Ogni sei mesi, la presidenza dell’Unione Europea passa di mano. Dal 1° luglio al 31 dicembre del 2014 toccherà all’Italia. Per la successiva presidenza si dovranno aspettare ben 14 anni. Si capisce come il prossimo appuntamento con la responsabilità di guidare l’Ue susciti attese e speranze. Ma avrà, l’Italia, nei suoi sei mesi, la possibilità di incidere davvero nella scena dell’Europa? A questa domanda onestà impone di rispondere più con un «no» che con un «sì».Le ragioni di questo scetticismo sono più d’una e la prima discende dalle nuove procedure dell’Unione per il coordinamento dei bilanci nazionali. È il cosiddetto «semestre europeo», che inizia alla fine di ogni anno con la Commissione Europea che presenta l’analisi annuale della crescita e si conclude entro i primissimi giorni di luglio con l’adozione formale da parte del Consiglio Europeo (cioè dai capi di Stato e di governo) delle «raccomandazioni» elaborate dalla Commissione sulla base dei programmi di stabilità e di riforma presentati dai singoli Stati membri. Un’attività decisiva per il governo dell’economia europea che si concentra e si esaurisce quasi per intero nella prima parte dell’anno, quella che, nel 2014, coinciderà con la presidenza della Grecia, e non dell’Italia.
Anche la seconda ragione che spinge a ridimensionare le attese per il nostro semestre di presidenza ha a che fare col calendario. E, di nuovo, è il calendario europeo quello che conta.
Le prime date da tenere presente sono quattro: 22-25 maggio, elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo; 26-27 giugno Consiglio europeo a Bruxelles per la designazione dei nuovi presidenti dello stesso Consiglio e della Commissione Europea; 31 ottobre, scadenza del mandato della Commissione Europea presieduta dal portoghese Barroso; 30 novembre, scadenza del mandato del presidente del Consiglio Europeo, il belga Van Rompuy.
Fino alla fine di novembre, quando mancheranno poco più di tre settimane alla fine del semestre di presidenza italiana, la politica europea vivrà, pertanto, in uno stato di sospensione in attesa di conoscere a chi saranno affidate le grandi istituzioni dell’Unione (nessuna delle quali, con Mario Draghi presidente della Banca centrale europea, potrà andare a un italiano).
Questo, se tutto va bene. Nel designare il presidente della Commissione, il Consiglio Europeo deve tenere in conto dei risultati delle elezioni europee. Come già fecero i Verdi nel 2004 nel nome di Daniel Cohn Bendit, le grandi famiglie politiche europee si preparano a presentarsi al voto ciascuna con un proprio candidato per la guida della Commissione (forse il francese Barnier per i popolari, il tedesco Schulz per i socialisti, il belga Verhofstadt per i liberali). Ma la cancelliera Merkel (a cui si attribuisce la volontà di spostare il fidatissimo Van Rompuy dal Consiglio alla Commissione) ha già fatto sapere che non intende in alcun modo cedere ad altri un potere che è suo e degli altri capi di Stato e di governo.
E così, è possibile che si apra un periodo di contrasto tra il Consiglio e il Parlamento appena eletto, con la prospettiva che tutte le nomine slittino più avanti nell’anno e che, quando pure a queste si sarà giunti, il Parlamento decida di rimarcare la propria autorità bocciando, come già ha fatto più volte in passato, uno dei commissari designati, allungando così ulteriormente i tempi dell’interregno. Una prospettiva che porterebbe la nuova Commissione e il nuovo o la nuova presidente del Consiglio a entrare in carica solo nei primi mesi del 2015, quando il semestre italiano si sarà già concluso.
A queste ragioni, tutte europee, che inducono a non alimentare un eccesso di attese e ambizioni per il nostro semestre di presidenza, se ne deve aggiungere almeno una rigorosamente «made in Italy»: l’instabilità politica nazionale.
Dire che la responsabilità della presidenza dell’Unione impone di assicurare almeno per tutto il prossimo anno la vita di questa legislatura e di questo governo porta con sé, come l’altro lato della medaglia, la previsione del loro esaurimento nei mesi immediatamente successivi.
Una condizione di precarietà che, indipendentemente dal prestigio personale e dalla competenza del presidente del Consiglio e di ciascuno dei ministri del governo, inevitabilmente ne limiterà l’autorità, un patrimonio che si conquista dimostrando la capacità di prendere impegni validi nel tempo.
«Ma tu, quanto duri?». Fu questa la domanda che un grande cancelliere tedesco rivolse, al loro primo incontro, a un presidente del Consiglio italiano. Una domanda, purtroppo, ancora attuale.