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 2013  dicembre 29 Domenica calendario

ROBERTO DE SIMONE


Davanti allo spaghetto ai lupini, preparato da Biagio, il maestro si rilassa. Abbiamo parlato per un paio d’ore, seduti nel salone accanto al pianoforte. Poi si è alzato, un po’ a fatica, accennando qualcosa alla tastiera. È stato un momento intenso. Nel ricordo di Béla Bartók, sotto gli occhi di Metastasio e di un Masaniello morente (i due ritratti sovrastano le pareti della grande stanza), Roberto De Simone si è commosso. Eppure, mi sembra che la vera conversazione inizi ora, a tavola, con il figlioccio che ha cucinato e noi seduti in cucina a chiacchierare liberamente. De Simone, ottant’anni da poco compiuti, ha eloquio rotondo. Biagio gli passa il cellulare. Il maestro si incupisce. Dall’altra parte un attore si lamenta. «Ecco vede», dice, «questi nostri attori, bravissimi, prendono ottanta euro lorde a serata. E di serate ne faranno un paio a settimana. Un comune, giorni fa, ne ha spesi 70 mila per l’esibizione di un noto cantante. Le pare ci sia proporzione? Mi dovrei incazzare. I miei amici dicono: lascia stare Robe’. Ma io non lascio stare. Napoli mi fa schifo. Sempre meno è la città che avrei voluto, che ho amato e sognato».
Che città si augurerebbe?
«Con il volto e la dignità di una volta. Non dico che le cose non devono cambiare. Ma cos’è questo degrado, questa ottusità, questo sprofondare nel nulla? Non c’è più rispetto. E tra un po’ non ci sarà più neanche il pane. Non sente la disperazione che monta? A ogni elezione i politici si riempiono la bocca di promesse. Poi, a cose avvenute, se ne fottono. Di te, di me, di noi. Sto finendo di scrivere un libro in cui racconto questa città, si chiamerà
Satyricon, Napoli ‘44».
Perché Satyricon?
«È la volgarità. Capisce? Questa città è imbevuta di volgarità. E c’era già allora: la volgarità dei neoarricchiti che hanno scippato il benessere esibendolo come una forma di potere».
E 44?
«È l’anno. Doveva essere la rinascita. Invece...».
Invece?
«Dovrei raccontarle la mia vita».
Proviamo.
«Ero bambino. C’erano stati i bombardamenti, le “quattro giornate”, i nostri corpi comprati e venduti per niente e la borghesia che se ne fuggiva. Mentre noi, i poveri, restammo lì con il cerino acceso, a prendercelo in quel posto».
Erano arrivati gli americani.
«Ma quanto folclore, quante chiacchiere, quanta retorica ci abbiamo costruito. Eravamo un popolo e ci stavamo avviando a diventare “gente”. Un aggregato di anime perse senza più fede. O meglio con una fede sgargiante, esibita, senza fondamento».
E lei in tutto questo?
«Avevo una decina di anni e una grande passione per la musica. In particolare il pianoforte. Lo strumento c’era in casa. Una cugina, che aveva studiato al conservatorio, mi diede le prime lezioni. La mia era in parte una famiglia di teatranti. Mio nonno era stato attore nella compagnia di Salvatore De Muto, l’ultimo grande Pulcinella. Mio padre faceva il suggeritore nelle sceneggiate. E mia madre, la sola che guadagnava, si dedicava al contrabbando».
Di sigarette?
«Macché. Di sapone. Lo faceva in casa, di notte, dentro a dei pentoloni. C’era un puzzo di rancido che accorava. Una volta preparato veniva venduto alla borsa nera. Così abbiamo campato. Poi c’era stato il nonno materno. Aveva una bottega di litografie. Morì, su un covone di grano, mitragliato dai tedeschi. Nonna, una nobile decaduta e accesa filoborbonica, non se ne diede pace. E questo fu lo sfondo sul quale crebbi».
Diceva della sua predilezione per la musica.
«Entrai in conservatorio nel 1945. Studiai anche composizione. Furono anni fervidi e speranzosi. Mi capitava di fare il pianista jazz nei night improvvisati. Fumo, donne, whisky e soldati americani. Ogni sera una rissa. Eseguivo la Rapsodia in Blu di Gershwin. Una sera accennai Rachmaninov, a momenti mi linciavano».
Niente musica classica.
«Ogni tanto la suonavo nei palazzi dell’aristocrazia. Una sera mi recai nell’abitazione di una granduchessa russa, scappata ai tempi della rivoluzione.
Era stata, così si diceva, dama di compagnia della zarina. Eseguii la Ballata in sol minore di Chopin. Alla fine mi si avvicinò un signore e disse: “Guagliò, hai un suono stupendo”.
Confuso, ringraziai. E lui: “Ringrazia la natura che ti ha dato quella testa e quelle mani”».
Chi era?
«Renato Caccioppoli, il matematico. A volte, lo incrociavo ubriaco mentre camminava per la riviera di Chiaia. Tornava da qualche osteria dove aveva trascorso la sera a bere vino e a recitare pezzi della Divina Commedia.
Faceva a gara con un tale, che io ricordo avvolto da un lungo cappotto con il bavero di pelliccia, a chi era più bravo. Renato cominciava un verso e l’altro lo finiva. Uno spettacolo».
Un comunista sui generis.
« Totalmente.
La sinistra ne fece un’icona un po’ snob. Ma lui era il basso napoletano. Ricordo che pur senza essere credente gli piaceva assistere allo scioglimento del sangue di San Gennaro».
Lei è credente?
«Come potrei non esserlo, tradirei tutta la mia formazione. Ma non una credenza religiosa, bensì magica e popolare. Non mi sono mai chiesto chi fosse Dio. Ma è impossibile che non ci sia».
Da cosa nasce una simile certezza?
«Penso che abbia molti punti in comune con la musica. Che è la cosa più bella che si possa sperimentare nella vita. A patto che della musica si scopra ciò che è sconosciuto di lei. Questo la rende viva. E Dio è così. Bisogna scoprire ciò che non sappiamo di lui».
E lei cosa non sa di se stesso?
«Se mi conoscessi interamente, la mia vita perderebbe senso. Certe volte mi sorprendo di me. È segno che ancora grande è la riserva di mistero».
Mistero è una parola impegnativa.
«Che ci impegna, è vero. Del resto, non amo lo stupido realismo. La realtà è tosta. Delude. A volte fa male».
A cosa pensa?
«Quando uscii dal conservatorio non ci fu nessuno disposto ad aiutarmi. Per uno come me, con le pezze al sedere, la precarietà era la norma. I figli di papà andavano avanti e noi ci dovevamo accontentare dei lavori occasionali. Mio padre era morto. Molto del peso della famiglia ricadde su di me. La Rai mi scritturava a gettone per accompagnare voci celebri come Mario Del Monaco o Marilyn Horne o, quando veniva a Napoli, Sergiu Celibidache».
«Non benissimo. Era tremendo. Esigeva dei “pianissimi” impercettibili.
Un altro tremendo fu Eduardo. Ho visto che in una stanza c’è una sua foto con dedica.
La dedica è “a Roberto, Eduardo, 1974”. Eravate così intimi?
«Posso dire che fu un’amicizia fondata su una grande stima reciproca. Anche se non sempre ho condiviso la filosofia di fondo di Eduardo».
«È indiscutibile che Eduardo sia stato un grandissimo artista. Ma, forse inconsapevolmente, ha contribuito alla morte del teatro napoletano più autentico. Lui non si rivolgeva più alla Napoli popolare, ma a quella piccolo-borghese. Guardava le cose del mondo da Palazzo Scarpetta, con l’occhio del borghese progressista ».
«Da Pignasecca e Montesanto: dalle zone popolari. Scrissi La gatta cenerentola in contrapposizione alla visione di Eduardo. Il mio teatro era epico, come quello dei Pupi, delle sceneggiate, delle opere di Pulcinella o del melodramma al quale assistevo dal loggione del San Carlo. Questo non ha impedito che ci stimassimo. E lui, nonostante avesse un cattivo carattere, soprattutto con i suoi attori, con me è sempre stato di una gentilezza sopra le righe».
Insomma, Eduardo era troppo razionale per i suoi gusti.
«Non coniugò quasi mai oralità e scrittura. I suoi sono testi letterari. Pensati fuori da quella grande tradizione alla quale si ispirò, per esempio, Totò e lo stesso Peppino che, nonostante i suoi limiti, era un grande improvvisatore. Eduardo detestava l’improvvisazione. Una lettera, come quella celebre scritta da Totò e Peppino, per lui era inimmaginabile».
La gatta cenerentola ebbe uno straordinaria affermazione. Come ha vissuto il successo?
«Non mi ha mai condizionato. E del resto non si è mai tradotto in ricchezza».
Il rapporto con il denaro?
«Pessimo. Non ho mai avuto una reale consapevolezza di come si dovesse amministrare. Vivo, qui a Foria, in una casa non mia. Grande. Dove ho accumulato testimonianze artistiche e documentarie».
Ha degli oggetti della tradizione molto belli.
«Lascerei correre sulla bellezza. Più che all’estetica ho badato al significato. Nella consapevolezza di allestire un giorno un piccolo museo di arti e tradizioni popolari. Temo che resterà un sogno».
Perché?
«Perché, come le dicevo, è una città allo sfascio. Con degli amministratori inconsistenti. La parola data per molti di loro non significa nulla».
Ma cos’è questa tradizione che lei difende sopra ogni cosa?
«È una sorta di cristianesimo magico-popolare che aveva molto interessato Ernesto De Martino. Un misto di paganesimo e di religione. Pasolini seppe integrare benissimo i due momenti».
Crede nel soprannaturale?
«Certe cose fanno parte della mia storia. In famiglia, tra le tante persone, c’era la zia Olimpia. Che ai tempi era stata una fervente bolscevica, poi attrice di un certo talento nella compagnia di Federico Stella. Un giorno abbandonò il teatro perché scoprì di avere qualità medianiche. Credo che la sua figura mi abbia influenzato ».
Forse la massima espressione demartiniana è stata la “Nuova compagnia di canto popolare” che lei ha fondato alla fine degli anni Sessanta.
«Mi ritrovo in questa espressione, anche se allora la sinistra benpensante mi accusò di essere un aristocratico».
Perché è finita, almeno per lei, quell’esperienza?
«Perché le cose non durano e a volte si guastano. Ciò che è rimasto è come la vernice scrostata e arrugginita di un’automobile.
Fa tristezza solo a guardarla».
Cosa pensa del neo-melodico?
«È uno dei tanti prodotti di una cultura di massa e non di popolo. Imposti attraverso gli audiovisivi e in particolare la televisione ».
La guarda?
«Sì, con noia e con rabbia. Come non accorgersi che il suo elemento cardine è la menzogna e la finzione?».
Solo questo?
«Soprattutto questo. Prosciuga le nostre riserve oniriche».
Lei sogna?
«Abbastanza. In certi periodi mi sembra che il sogno eserciti su di me una strana potenza».
Le piace quando accade?
«Non è questione di piacere. I sogni trascorrono. A volte li ricordo. A volte incidono come pugnalate; a volte rivelano qualcosa che mi avvicina alla morte o all’accettazione di essa».
In fondo, è la tradizione stessa a far convivere la morte con la vita.
«È una relazione affascinante. Questa casa, con gli oggetti che ho raccolto, ne porta la testimonianza. Nell’altra stanza ho appeso alla parete una specie di cassetta di legno su cui poter apporre dei nomi. La usavano certe congreghe religiose. Vi ho scritto i nomi dei morti che hanno avuto influenza nella mia vita: contadini, amici, artisti, scrittori. Gente comune e straordinaria. È il contatto che continuo a mantenere con l’altro mondo».
Forse è un diverso modo di coniugare la parola musica.
«Sì, vorrei farle vedere i miei spartiti più cari. Sul pianoforte, vede, tengo sempre Stravinsky. Il suo nome ha saputo coniugare oralità e scrittura. Un’altra opera che ho amato alla follia è Béla Bartók. Scritta da un uomo straordinario che morì in miseria e che nessuno ha aiutato. Mi fa piangere. Mi scusi. Ma non posso fare a meno di commuovermi. Sono vecchio. Dovrei stare con i vecchi. Ma con loro mi annoio e mi deprimo».
E che fa?
«Che devo fare? Li evito, se posso. Ho avuto due infarti, mi hanno fatto un’angioplastica, ora mi trascino con una stampella. La consolazione sono i miei allievi. Ma non so cosa accadrà quando sarò morto. Non so cosa ne sarà della mia eredità. Quel po’ di cose e di idee chi le raccoglierà? Si disperderanno. Si dice: ci sono i giovani. Balle! Dico loro: rivoltatevi. Fate vedere a questo Stato in che condizioni vi ha ridotto. Mi scusi. È tardi. Venga. Biagio ha preparato la pasta con i lupini, sono i fratelli poveri delle vongole. Ma buoni. È un pezzo di Napoli che ancora si sopporta, si tollera, si ama».