Federico Rampini, La Repubblica 29/12/2013, 29 dicembre 2013
AMBROGIO MAESTRI
NEW YORK L’appuntamento è da Felidia, un tempio della gastronomia italiana a Manhattan, fra la 58esima strada e la Seconda Avenue. Nella calca degli avventori che si spintonano per conquistare un tavolo, lui sovrasta la folla. A tal punto che molti lo scambiano per il padrone del ristorante, lo salutano con deferenza e gli chiedono aiuto. Dall’alto del suo metro e 97, con una corpulenza trimalcionica e una voce che fa vibrare le mura (El Vusun, il vocione, fu l’affettuoso soprannome in dialetto lombardo coniato dai suoi compagni di studi), Ambrogio Maestri non si offende per nulla del malinteso. Non certo dell’accostamento con il Trimalcione del Satyricon: «Con i miei eccessi — ride — io sono davvero un personaggio felliniano». Tantomeno lo irrita essere scambiato per un guru della gastronomia. «È proprio quello il mondo da cui vengo. Figlio di macellai, e fiero di esserlo, anche se con queste mani non ho mai ucciso un essere vivente… Neanche un maiale!».
La sua storia personale affascina gli americani, dopo che il suo talento li ha sedotti. Di lui il New York Times ha scritto: “Maestri non interpreta Falstaff, lui è Falstaff”. I critici newyorchesi lo avevano già incoronato come uno dei più grandi baritoni del nostro tempo, osservandolo come Dottor Dulcamara nell’Elisir d’Amore di Donizetti. Ora è un trionfo con questo Falstaff verdiano alla Metropolitan Opera, un ruolo che lui aveva già interpretato alla Scala e nelle tournée in Giappone e Brasile. Il più giovane Falstaff della storia all’età di ventinove anni sotto la direzione di Riccardo Muti, oggi “oltre duecento volte” Falstaff a quarantatré anni: è una collezione di record negli annali della lirica.
L’altro Maestri che esalta gli americani è il self-made man, la storia di un talento sbocciato in un luogo improbabile: l’osteria dei genitori a Pavia. «Il mio primo pubblico furono gli avventori dell’osteria — racconta il baritono — che mi sentivano cantare arie d’opera mentre servivo ai tavoli. La nomea si diffuse, molti venivano a mangiare anche per ascoltarmi. Incoraggiato dal successo, a fine serata dicevo: sparecchiate voi, io canto. Furono alcuni clienti, degli habitué della Scala, a dirmi: tu devi cantare per mestiere. Avevo ventitré anni, al tempo stesso studiavo pianoforte e solfeggio, ma continuavo a fare il garzone di macelleria e il cameriere ai tavoli. Da quei tempi mi è rimasto un bel repertorio di canzoni da osteria, quelle veraci, anni Cinquanta».
Il New York Times si è talmente innamorato di questa storia, che oltre a dedicargli due pagine di ritratto, ha chiesto a Maestri una sua ricetta personale del risotto alla milanese. La fama del gourmet lo ha inseguito sul palcoscenico. Alla prima del Falstaff, trasmessa nel mondo intero in tv ad alta definizione, la direzione della Metropolitan Opera ha “costretto” il baritono italiano a un intermezzo davvero inusuale: un risotto cucinato in diretta mondovisione, nell’intervallo fra il secondo e il terzo atto. Ora che il marketing televisivo è soddisfatto, Maestri può confessare un piccolo retroscena imbarazzante: «Ovviamente quel risotto non potevo prepararlo io, fra un atto e l’altro. Ho dovuto cantare le lodi di un risotto preparato da altri, e francamente all’assaggio era tremendo. Zafferano, salsicce, funghi, gli ingredienti c’erano tutti, ma qualcosa non ha funzionato nella preparazione. Quella roba lì, onestamente, io non l’avrei data al mio cane…».
Mentre ceniamo molti commensali lo riconoscono, dai tavoli vicini arrivano elogi e applausi. Compare anche Lidia Bastianich, guru dell’alta gastronomia italiana a New York, appassionata di lirica, che non si è fatta sfuggire la presenza nel suo ristorante di un cliente così rinomato. Maestri non si tira indietro di fronte ai numerosi assaggi che lo chef gli sottopone con deferenza: si comincia con trippa, spaghetti “cacio e pere”, una girandola di vini dai quali l’intervistatore deve astenersi per non perdere lucidità. È una vita tutta extralarge quella di Ambrogio-Falstaff: già giocatore di pallacanestro nella squadra Annabella di Pavia («Cinquanta chili fa», sogghigna), oggi fumatore accanito, anche un pacchetto al giorno. Sfida il vento gelido di New York passeggiando senza sciarpa, a gola scoperta. Nulla sembra scalfire questo personaggio larger than life, più grande della vita, come dicono gli americani.
Maestri diventa però serissimo quando si parla del suo mestiere: «Sono grosso, pantagruelico, la mia vocalità è un immenso dono del destino. E tuttavia è un dono che va curato, accudito: studiare studiare studiare. Ho fatto sei anni di vocalismi a scuola, tanto pianoforte. Oggi, devo allenarmi almeno due ore al giorno per 365 giorni l’anno. Come un atleta».
Colpisce la sua preparazione storico- filologica sul Falstaff.
«Quando sono in Italia, alla Scala è ovvio che il Falstaff devo interpretarlo in maniera drammatica. Perché Verdi si rispecchiava in Falstaff, protagonista della sua ultima opera, che lui finì di comporre nel 1892 sulla soglia degli ottant’anni. Su libretto di Arrigo Boito, liberamente ispirato sia all’Enrico IV che alle Allegre comari di Windsor di Shakespeare, il Falstaff verdiano è meno comico di quanto appaia. Non muore nessuno, certo, ma è sbagliato scambiarlo per una semplice opera buffa. Il mio personaggio è un anziano che sente tutto il peso dell’età che avanza, un nobile decaduto, un ex-ricco, deriso e dileggiato da un ceto di nuovi ricchi, parvenu, arrivisti. Per quanto crapulone, lui ha la stoffa del guerriero, è uno che ha conquistato il suo titolo combattendo ». Maestri finisce per farti amare questo Falstaff. Si capisce l’entusiasmo del pubblico che lo applaude ogni sera a scena aperta. Avendolo “scoperto” anch’io coi newyorchesi nel ruolo di Dottor Dulcamara, ho percepito l’altra qualità del baritono che conquista gli spettatori: non è solo la sua fisicità eccezionale, è anche la leggerezza con cui si muove in scena, il senso della posizione, una sorta di ars comica naturale, che ne fa il centro dell’azione, polarizza su di lui l’attenzione con un’energia magnetica. «Qui nel Falstaff — dice Maestri — c’è tanta recitazione. Devi imparare… dove mettere le mani. E questa, onestamente, è farina del mio sacco. Ho avuto dei fantastici maestri di opera, a cominciare dal grande Muti, ma la recitazione a noi cantanti non l’insegna nessuno, bisogna essere un po’ autodidatti». Non è passato inosservato questo suo talento naturale, tant’è che Ferzan Ozpetek dopo averlo diretto nell’Aida, lo ha voluto al cinema in Magnifica presenza.
(«Ma che fatica — commenta Maestri —: quante scene da ripetere decine di volte. Non mi aspettavo che il cinema imponesse dei ritmi estenuanti»).
Conquistare il Met di New York è diventato ormai il massimo traguardo dei nostri tempi per un artista della lirica. Monopolizzare le recensioni di tutta la stampa americana è una consacrazione riservata a pochi. Maestri assapora le manifestazioni dello starsystem. «In Giappone — racconta — le ragazze mi fanno gli agguati all’uscita dal camerino. Poi mi toccano la pancia e vogliono la foto: come portafortuna? ». Sono forme di divismo che in un pubblico giovane ti aspetti per Brad Pitt, Johnny Depp o David Beckham. Lui non si monta la testa, resta un ragazzone con la passione del basket e della buona cucina, un’etica professionale rigorosa, e i pied(on)i per terra. «Sono finiti i tempi d’oro della lirica — dice — se con questo si allude alla dimensione del business. Gli ultimi furono Pavarotti, Domingo e Carreras: negli anni d’oro quei tre erano un brand, un marchio celebre quanto la Coca Cola, a quell’epoca il denaro scorreva a fiumi. Ora certi eccessi sono ridimensionati, l’austerity vige in ogni campo, e forse è meglio così». La modestia non gli riesce difficile, perché Maestri non ha reciso i legami con la sua terra, il suo piccolo mondo antico, l’osteria e le nebbie pavesi. «In questo periodo dell’anno — ricorda — tra Natale e il veglione di fine d’anno, i clienti prima o poi finivano quasi tutti ciucchi, ubriachi, ma era l’ubriacatura allegra delle feste. E noi osti diventavamo un po’ i loro confessori…». Anche di questo è fatto un talento naturale per l’opera lirica: genere nazionalpopolare per eccellenza, che fece vibrare di emozioni tante generazioni d’italiani, e resta una delle nostre esportazioni di maggior successo nel mondo. Quando il critico del New York Times vuol fare un complimento eccelso a Maestri, scrive semplicemente: “Lui fa di Falstaff un mascalzone molto seducente, lo interpreta in uno stile squisitamente italiano”. Per non prendersi sul serio, nella prima pagina del suo sito Internet, Ambrogio si è scelto come motto: “Tutto nel mondo è burla”. È la frase del gran finale di quest’opera che Verdi volle comporre come una sfida. Per dimostrare agli scettici — Rossini incluso — che lui poteva cimentarsi col genere comico. E al tempo stesso dissimularci dentro una riflessione dolce-amara sull’età.