Michele Serra, La Repubblica 29/12/2013, 29 dicembre 2013
1964 L’INVENZIONE DEI GIOVANI
Secondo una diffusa diceria, non so con quali basi scientifiche, quasi tutti i sistemi di pensiero dell’età antica (per esempio i grandi monoteismi) sono nati dalle civiltà pastorali. Mentre le bestie pascolano, il pastore ha molto tempo libero. Seduto su un sasso, o sotto un albero, è quasi obbligato a riflettere. È il vuoto che genera il pensiero. È quando si è liberi, per qualche ora al giorno e per molti giorni, da urgenze o scadenze, che i neuroni, abbandonati a se stessi, possono assumere assetti imprevedibili.
Dopo la Seconda guerra mondiale milioni di giovani occidentali — soprattutto europei — si sono ritrovati in una condizione inedita e molto privilegiata. Nessuna guerra da combattere; allungamento dell’età scolare; maggior benessere e dunque possibilità di ritardare l’ingresso nel mondo del lavoro. Molto tempo libero.
Tanto tempo libero quanto mai, prima, era stato a disposizione di alcuna generazione precedente. La straordinaria (irripetibile?) produzione di culture, linguaggi, comportamenti sociali, pensiero politico degli anni Sessanta e Settanta è figlia di quel “vuoto”. Quando ricordo i miei anni di liceo e di università, mi strugge ripensare a quella sterminata disponibilità di tempo, quei pomeriggi a perdere, quelle chiacchiere con gli amici, quelle camminate senza meta o con mete pretestuose (un bar, una panchina, un negozio) utili solo a tirare tardi. Come il pastore seduto sul sasso, il giovane parcheggiato per anni alle porte della società ha il tempo e il modo di inseguire i suoi pensieri, e architettare cose nuove. Spesso cose socialmente pericolose: idee rivoluzionarie o solamente balorde; invenzioni geniali o solamente bizzarre.
Almeno teoricamente, la condizione giovanile in Occidente non è molto mutata nell’ultimo mezzo secolo. Anzi: l’ingresso sempre più precario e ritardato nel mondo del lavoro farebbe pensare a un’ulteriore estensione dello status di “giovane”. I giovani sono assai meno numerosi di quanto fummo noi baby-boomers; ma sono “giovani” molto più a lungo, fino ai venticinque, ai trenta, ai trentacinque, fino a che la beffa delle lauree inutili e dei master puramente ornamentali riesce ad alimentare la commedia degli inganni.
Come mai, dunque, da questo esteso e durevole limbo, da questo immenso “vuoto” non sprigiona, prepotente, un nuovo pensiero, una nuova sovversione, il vento della rivolta? La prima risposta possibile è: basta aspettare. Ci siamo quasi. La seconda, che complica non di poco la situazione, è che il solo tempo davvero “libero” — il tempo vuoto — è stato disponibile solo eccezionalmente in quegli anni, una tantum, e forse grazie a una clamorosa distrazione dei poteri costituiti. In breve (diciamo a partire dagli Ottanta) si è provveduto a imbottirlo, quel vuoto, con qualunque cosa servisse a evitare il rischio di nuove generazioni di insorti o di insorgenti. Di eccessivamente pensanti. Le droghe, i consumi (tanti consumi!), le occupazioni febbrili (sportive, ricreative), le settimane irte di impegni come quella di un manager già a dodici anni. La giovinezza rioccupata, riassegnata a compiti purchessia, come quando a militare i graduati più zelanti, e più odiosi, costringono a scavare buche e poi riempirle pur di non lasciare i coscritti con le mani in mano.
Lo so, è una tesi dietrologica e complottarda, dunque rozza e semplificata, quella della giovinezza tenuta a bada dalle guerre (fino a metà del Novecento) e oggi dal rincoglionimento dei consumi compulsivi, delle iperconnessioni, delle attività ricreative, di tutto quello che serve a riempire il vuoto. Ma a una ragazza, a un ragazzo, se potessi regalerei quel vuoto, ben ripulito, un vuoto svuotato del ripieno infernale che tutti — non solo i ragazzi — ci fa sembrare capponi pronti per il forno.