Tito Boeri, La Repubblica 29/12/2013, 29 dicembre 2013
IL PREZZO DELLA POLITICA
VEDREMO chi avrà ancora il coraggio di sostenere che le fondazioni bancarie hanno salvato il nostro sistema bancario dalla crisi! Soprattutto dopo ciò che è accaduto ieri a Siena all’assemblea straordinaria degli azionisti
Mps.
La Fondazione Monte dei Paschi, azionista di maggioranza della banca senese, non ha esitato a utilizzare il proprio voto determinante per affossare l’aumento di capitale della terza banca italiana.
La fondazione era certamente consapevole del fatto che «Banca Mps sta attraversando un momento critico» che le impone «un aumento di capitale di 2,5 miliardi entro il 2014». Lo aveva scritto a pagina 2 del suo “Documento Programmatico Pluriennale 2014-17”. Sapeva anche che un ritardo nel procedere all’aumento di capitale previsto per gennaio 2014 condanna la banca a pagare interessi per almeno 120 milioni nell’immediato e a breve per 329 milioni. Era conscia del fatto che il rinvio rischia di far saltare completamente il progetto di collocamento sul mercato di nuove azioni Mps, e la contestuale restituzione al contribuente italiano di 3 miliardi di Monti bond, concordato con un consorzio di garanzia (alla quotazioni attuali Mps vale poco più di due terzi di quanto si vuole collocare) di banche italiane ed estere. Non paga di avere causato il dissesto imponendo per anni il controllo della politica locale sulla banca (Giuseppe Mussari, prima di diventare presidente Mps era stato presidente della fondazione), la fondazione, con la benedizione del sindaco di Siena, ha ieri di fatto sfiduciato il management che aveva sin qui cercato di salvare il Monte dei Paschi.
Non è certo la prima volta che una fondazione si oppone apertamente ad un aumento di capitale volto a rafforzare la posizione patrimoniale di un nostro istituto di credito nel mezzo della crisi finanziaria peggiore del Dopoguerra, pur di non vedere diluita la propria quota di voti nell’assemblea che decide gli organi societari. Basti pensare alle recenti vicende di Banca e fondazione Carige. Ma l’esito dell’assemblea di ieri supera i precedenti per la gravità della crisi Mps, i rischi cui espone il nostro sistema bancario, i costi cui espone il contribuente e perché mette in luce l’altra faccia della medaglia dell’abbraccio mortale fra banche e fondazioni bancarie. Sin qui erano state le fondazioni a bruciare il proprio patrimonio e addirittura a indebitarsi pur di mantenere il controllo sulle banche. Ieri abbiamo avuto l’esempio di una fondazione che antepone la propria salvezza («non si è voluto arrecare pregiudizio alla fondazione» ) a quella della terza banca italiana. Il presidente della Fondazione Mps, Antonella Mansi, si è ieri vantata in assemblea di essere «un azionista che utilizza il proprio denaro per perseguire scopi di utilità sociale». Ma gli stessi documenti di programmazione pluriennale della fondazione certificano che questa «ha sospeso la propria attività erogativa» fin quando non avrà ripianato il suo debito, un processo che rischia di durare a lungo dato che oggi il capitale della fondazione è investito solo in azioni Mps e in una società immobiliare, la Sansedoni Spa, sull’orlo del fallimento. Se davvero bisogna scegliere tra salvare la banca o la fondazione, non c’è alcun dubbio riguardo a dove risieda «l’utilità sociale».
Ma è anche discutibile che da questo rinvio possa trovare giovamento la fondazione. Se, come auspicabile, la fondazione intende nei prossimi mesi vendere sul mercato le proprie azioni Mps per ripagare i propri debiti e diversificare il proprio patrimonio, non si vede a cosa possa servire un rinvio di quattro mesi. In attesa di un aumento di capitale tanto improrogabile quanto più laborioso di quello sin qui contemplato, è difficile pensare che la fondazione possa liquidare le proprie azioni Mps (o anche solo i diritti a partecipare all’aumento di capitale) a condizioni più vantaggiose di quelle attuali. Ma forse il vero intento della fondazione è quello di non fare affatto un’operazione di mercato, bensì di avviare una cordata assieme ad altre fondazioni bancarie. Tra le quali opportunamente si è defilata nei giorni scorsi la Compagnia San Paolo. Opererebbe in questa direzione anche l’intervento della Cassa Depositi Prestiti, mediante il fondo strategico a difesa dell’italianità, auspicato dalla Confindustria senese. Bene ricordare che la Cdp è partecipata al 17 per cento dalle fondazioni bancarie e che la difesa dell’italianità è la stessa motivazione con cui i vertici di Banca Intesa e della Fondazione Cariplo hanno cercato di rinsaldare l’intreccio fra banche e fondazioni bancarie imponendo Giuseppe Mussari alla guida dell’Associazione Bancaria Italiana. Per evitare che le vicende di Piazza Salimbeni trovino esegeti altrove, tra le tante fondazioni bancarie che sono in via d’estinzione, bisogna spezzare al più presto questo intreccio.
Il Tesoro, in quanto organo di vigilanza sulle fondazioni bancarie, ha non poche responsabilità in quanto avvenuto nella terra delle Crete. Bene che questa volta non rimanga lì a guardare, relegando il caso Mps a un problema di politica locale. Potrebbe chiedere a tutte le fondazioni un piano di cessione delle quote detenute nelle banche di riferimento in tempi certi, pena la trasformazione automatica di queste azioni in azioni di risparmio senza diritto di voto.