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 2013  dicembre 29 Domenica calendario

KOKOSCHKA E ALMA NON SI UCCIDONO COSÌ ANCHE LE BAMBOLE


Questa storia si può cominciare dalla fine. Da quando, un mattino d’estate del 1919, a Dresda, due poliziotti, passando davanti al giardino di una villetta, scorgono seminascosto da un cespuglio il corpo nudo e insanguinato di una donna decapitata. Bussano alla porta per chiedere spiegazioni e si trovano davanti un giovane uomo visibilmente reduce da una notte di eccessi. Non è uno qualunque: è Oskar Kokoschka, il «selvaggio», il «degenerato» (come lo bolla la critica), lo scandaloso artista austriaco transitato dalla Secessione viennese all’espressionismo attraverso l’esperienza monacense del Blaue Reiter, chiamato a insegnare alla locale Accademia d’arte. Il corpo decapitato invece «è» quello di Alma Mahler, la vedova del celebre compositore, nota come «la musa del secolo», una delle donne più desiderate e volubili dell’epoca, centro gravitazionale dei salotti intellettuali e mondani di Vienna. È stato Oskar a ridurla così. Ma quella donna non è veramente una donna, e il sangue che la inzuppa non è veramente sangue.
Però questa è davvero la fine. L’inizio invece è di qualche anno prima, nella capitale (ancora per poco) asburgica. È il 12 aprile 1912 quando il ventiseienne Kokoschka, a cena dal collega pittore Carl Moll, ne incontra per la prima volta la figliastra Alma, fresca vedova, sette anni più anziana di lui. La passione divampa immediata. Violenta, ossessiva, delirante. La storia di questa relazione (che definire amore sarebbe riduttivo, oltreché improprio) e del suo folle epilogo (inverosimile ma vero, direbbe Pirandello) è ricostruita da Andrea Camilleri in un piccolo libro che uscirà all’inizio del 2014 per Skira, La creatura del desiderio (pp. 137, € 14,50). Non un romanzo ma piuttosto un saggio. Un testo insolito per il papà del commissario Montalbano, ma a modo suo anche questo un’indagine, basata su lettere e testimonianze.
Divenuto l’amante di Alma, Kokoschka si mette a ritrarla in tutte le pose in decine di bozzetti e dipinti, agitato da una frenesia di possesso che vorrebbe appropriarsi ogni singola parte del suo corpo feticizzato. Il quadro più famoso, La sposa del vento (così battezzato dal poeta Georg Trakl), «mostra me e la donna tanto amata», racconta il pittore nella sua autobiografia, «su un relitto nello spazio», una sorta di letto di nuvole circondato dalla tempesta delle passioni: una drammatica rappresentazione del disordine interiore e delle personali angosce, indagate dall’artista sulla scia di Freud. La donna è raffigurata serena, abbandonata nel sonno sul corpo nudo dell’amante. Lui invece è desto, impietrito, l’occhio fisso verso un punto indefinito dove si condensano i suoi incubi. Il quadro, del 1914, richiama (e probabilmente ispira) un’altra celebre opera, L’abbraccio di Schiele, che è di tre anni posteriore: entrambi pervasi dal senso di una fine imminente, il secondo tragicamente presago della fine della vita (di lei, di lui, di tutto un mondo), quello di Kokoschka concentrato sulla fine dell’amore. Ossia, anche qui, della vita. Di un progetto di rigenerazione spirituale e di comunione corporea che avrebbe fatto di Oskar e Alma una persona sola, con una nuova identità in cui le loro individualità precedenti si sarebbero fuse e annullate.
Le lettere di lui, oltre quattrocento, alla «cara Almi», «angelo mio gentile», «moglie mia» sono un delirio di sensualità e di vagheggiamenti mistici. Lei esita, turbata. Soprattutto, è spaventata dalla gelosia di Oskar, che la vorrebbe tutta per sé, e vorrebbe cancellare perfino il suo passato, a partire da quel marito morto così ingombrante, che un giorno gli capita in casa sotto l’effigie della maschera funeraria. L’artista la fa pezzi, Alma fugge e va a abortire il figlio che aspettava da lui, poi torna ma nulla è più come prima, e poco dopo fugge di nuovo, per sempre. Oskar impazzisce, batte la testa contro il muro, fa a pezzi un cavalletto, urla, smette di mangiare. Poi - è il 1914, è appena scoppiata la Grande guerra - vende La sposa del vento a un farmacista tedesco, col ricavato si compra un cavallo e parte volontario per il fronte russo. Viene ferito gravemente alla testa e ai polmoni, ma Alma - che nel frattempo è passata nelle braccia dell’architetto prussiano Walter Gropius, il fondatore del Bauhaus, con cui aveva già avuto una relazione quando Mahler era vivo, e che sposerà nel 1915 - ormai non si cura più di lui. Per lei la storia (l’incubo) è definitivamente chiusa.
Per lui no. E dopo tanto disperarsi, «come Orfeo che chiama Euridice dal mondo degli inferi» (parole dell’artista), trova il modo per rifarla sua. Camilleri evoca il mito di Elena nella reinterpretazione di Stesicoro e di Euripide, dove la donna fuggita con Paride a Troia non è la sposa di Menelao ma una sua copia mandata dagli dèi; il mito di Pigmalione che si innamora di una effigie eburnea di Afrodite; un racconto di Tommaso Landolfi, La moglie di Gogol, che immagina lo scrittore russo alle prese con un pupazzo gonfiabile.
L’idea folgora la mente di Kokoschka verso la fine di giugno del 1918, a una mostra di bambole create da una portentosa artigiana di Monaco, Hermine Moos. La decisione è presa: l’artista si mette in contatto con la donna, le chiede di costruirgli una seconda Alma che sarà l’unica autentica, esattamente come lui la vorrebbe, fuori e dentro. Segue un fitto carteggio con la Moos in cui Kokoschka, che della sua amata ha studiato e riprodotto qualsiasi dettaglio nei due anni trascorsi insieme, impartisce minutissime istruzioni su ogni minimo dettaglio anatomico, fino alle «parties honteuses» che - insinua Camilleri - dovevano evidentemente essere «fruibili». Materiali da impiegare, peli veri per le zone villose, diverse sfumature dell’incarnato, parti molli e parti dure: l’amante in crisi d’astinenza non trascura nulla. Alla fine di febbraio del ’19 la bambola è pronta: la gestazione ha richiesto nove mesi, proprio come quella di un essere umano.
Dapprima Oskar non è soddisfatto - e c’è da crederlo: a guardare le rare foto, la creatura è un mostro grottesco. Poi se ne fa una ragione, la riveste della sua fantasia (e degli abiti appositamente acquistati a Parigi), le riserva una cameriera personale, se la porta in giro in carrozza, perfino all’Opera, insieme ricevono gli amici. I giornali di Dresda parlano dell’artista stravagante e della sua «signora muta». Finché si arriva alla fatale notte d’estate.
Quella sera Kokoschka ha organizzato in casa una grande festa con musica e fiumi di champagne. Nell’autobiografia, del 1934, sostiene che voleva «farla finita con la compagna immaginaria». E racconta che al culmine dell’ebbrezza la bambola era stata decapitata (non precisa da chi) e innaffiata di vino rosso (il sangue), quindi scaraventata in giardino. In un’intervista di tre anni prima, aveva sostenuto una versione leggermente diversa, spiegando di essere stato lui a staccarle la testa: «Quella sera avevo ucciso Alma...».
Ma le cose sono davvero andate così? Davvero Alma è stata eliminata in una sorta di rito sacrificale? Camilleri ne dubita: no, i fatti devono essere andati altrimenti, tra i due deve essere successo qualche cosa. E qui, nelle ultime pagine, il saggio si fa racconto, invenzione che con geniale arditezza sviluppa le implicazioni del proposito iniziale di Kokoschka: plasmare l’amata secondo i propri desideri, fare di due persone una persona sola. Gli amanti parlano, si confrontano drammaticamente. E finisce come era inevitabile che finisse. Una fantasia da romanziere, forse: ma nel gioco dell’inverosimiglianza che cosa si può dire falso, che cosa può definirsi vero?
(Oskar si sposerà nel 1941 con la polacca Olda Palkovská e morirà nel 1980 a Montreux, in Svizzera; Alma avrà ancora un terzo marito e si spegnerà a New York nel 1964).