Matteo Radaelli, Milano Finanza 28/12/2013, 28 dicembre 2013
LA SINDROME CINESE
Il 2014 è atteso con fiducia da investitori ed economisti. I primi lo hanno dimostrato spingendo gli indici azionari Usa ai massimi storici e tutti i principali listini occidentali ai record degli ultimi anni. I secondi stimando una crescita del pil maggiore nel nuovo anno che nel 2013 in tutti i maggiori paesi tranne il Giappone.
Il Sol Levante, che nel 2013 ha beneficiato dei forti stimoli monetari e fiscali del governo Abe, dovrebbe vedere la crescita del pil ridursi dall’1,8% all’1,5%, soprattutto a causa dell’aumento dell’Iva dal 5% all’8% che scatterà a marzo.
Dal consensus degli economisti emerge come i tassi di crescita saranno molto diversi e che per alcuni Paesi, in particolare quelli alla periferia dell’Eurozona, parlare di ripresa potrebbe essere prematuro. Tra i Paesi sviluppati saranno gli Usa a mettere a segno la crescita più forte. Secondo il consensus dell’Economist, l’economia americana dovrebbe crescere del 2,7% nel 2014, netta accelerazione rispetto all’1,7% stimato per il 2013. Il Fmi prevede un tasso di crescita simile, 2,6% ma, come evidenziato dal direttore generale Christine Lagarde, potrebbe presto rivedere al rialzo la stima in scia alle migliorate prospettive dell’economia dopo l’accordo sul bilancio per i prossimi due anni. Gli ultimi dati economici confermano come la prima parte del prossimo anno dovrebbe rivelarsi positiva per la maggiore economia mondiale.
Un segnale positivo è arrivato dal leading indicator del Conference Board. In novembre l’indice è avanzato dello 0,8%, anticipando un’accelerazione del ciclo nei prossimi sei mesi. Anche gli altri indici anticipatori evidenziano come l’economia possa crescere a un buon ritmo nei prossimi mesi. Tutti gli indici di fiducia delle imprese restano in territorio espansivo e l’indice di fiducia dei costruttori si è riportato in dicembre al massimo da novembre 2005, toccato ad agosto. Unico freno nella prima parte del 2014 potrebbero essere i consumi qualora i miglioramenti del mercato del lavoro non si traducessero finalmente in aumento dei salari reali. La maggiore incognita per l’anno prossimo, soprattutto nel secondo semestre, resta l’inflazione e i suoi effetti sulla politica monetaria. La modesta dinamica dei prezzi dovrebbe far sì che la Fed riduca molto gradualmente gli acquisti di asset nei prossimi mesi, fermandoli solo a fine anno, mentre i tassi sui Fed Fund dovrebbero restare a zero fino al 2015. In questo caso i minori stimoli monetari potrebbero avere impatto modesto sulla crescita.
In Eurolandia il pil dovrebbe salire dell’1% dopo essersi contratto dello 0,4% nel 2013. Per quanto il peggio possa essere alle spalle è presto per dire conclusa la crisi dell’area. Perché resta forte la differenza di crescita tra i singoli Paesi, con la Germania che dovrebbe espandersi dell’1,7% mentre Francia, Italia e Spagna dovrebbero crescere poco sopra lo zero. È proprio la Francia a entrare nel nuovo anno sotto i peggiori auspici. Gli indici di fiducia Pmi sono tornati in zona recessione a dicembre.
La previsione di consensus, una crescita dello 0,8%, potrebbe essere troppo ottimista, soprattutto se fossero confermate le proiezioni di ritorno in recessione nel secondo semestre 2013. In secondo luogo i rischi di deflazione in caso di shock negativo restano molto alti. Preoccupano soprattutto gli aggregati monetari. Il calo di M1 dall’8,5% di aprile al 6,3% di ottobre non promette bene. In tale scenario la Bce dovrebbe mantenere un atteggiamento espansivo molto a lungo. Con i tassi allo 0,25%, Francoforte potrebbe decidere di espandere ancora l’offerta di moneta già nei primi tre mesi del 2014, con una nuova Ltro, magari studiata in modo da agevolare i crediti alle imprese non finanziarie che in ottobre, ultimo dato disponibile, si sono ridotti del 3,7%. Il ritorno a una crescita duratura del credito è fondamentale per una crescita in grado di sostenersi. Perché ciò avvenga sembrano necessari nuovi stimoli di politica monetaria e ulteriori passi verso l’Unione bancaria, che oggi mancano.
La maggiore incognita sembra però la Cina. Più che il rallentamento della crescita (il Fmi si attende un aumento del pil del 7,3% ma il governo potrebbe annunciare un obiettivo del 7%), preoccupa il sistema finanziario. Lunedì 23 il tasso di riferimento sul mercato monetario è salito per il settimo giorno consecutivo, evidenziando tensioni crescenti nonostante gli interventi della banca centrale. Con i timori di una bolla immobiliare sempre più forti e le riforme economiche che non dovrebbero avere effetti nel breve, aumentano i rischi che il sistema finanziario risenta della frenata dell’economia. In tale scenario tra le autorità cinesi si potrebbe far strada la tentazione di tornare alla crescita guidata da investimenti ed esportazioni, rimandando il rilancio della domanda interna. Cosa che inciderebbe anche sull’economia occidentale perché il maggiore flusso di export potrebbe aumentare le pressioni deflazionistiche. Da come Pechino gestirà il rallentamento della crescita dipenderà sempre più il futuro dell’economia mondiale nei prossimi mesi.