Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  dicembre 29 Domenica calendario

GUY DE MAUPASSANT


Un sole opprimente cadeva a piombo
sul lavatoio;
Le anatre intorpidite si addormentavano
nel fango,
E l’aria bruciava così forte che ci si aspettava di vedere
Gli alberi avvampare dalla sommità alla base.
Ero sdraiato sull’erba accanto alla vecchia
barca
Dove le donne lavavano la biancheria. Acque grasse,
Bolle di sapone che scoppiavano subito
Se ne andavano alla corrente, lasciando lunghe tracce.
E mi stavo assopendo quando vidi venire,
Sotto la luce abbagliante e il caldo torrido,
Una ragazza che camminava con passo fermo e rapido,
Le braccia sollevate a tenere
Un pesante fagotto di panni sopra la testa.
I fianchi larghi e la vita esile, fatta
Come una Venere di marmo, avanzava
Diritta, ancheggiando un po’.
La seguii, prendendo la stretta passerella
Fino alla soglia del lavatoio, dove entrai dietro di lei.
Scelse il suo posto, e in una tinozza piena d’acqua,
Con gesto svelto e deciso gettò il suo fardello.
Era vestita al limite del consentito;
Lavava i panni; e ogni movimento
Delle braccia e dei fianchi rivelava nettamente,
Sotto la sottogonna aderente e la camicetta,
Le rotondità del sedere e dei seni.
Lavorava duramente; poi, quand’era stanca,
Alzava le braccia, e, superba di grazia,
Stirava il corpo flessuoso inarcando le reni.
Ma il sole potente faceva scricchiolare le assi;
La barca si dilatava come per respirare.
Le donne ansimavano; si vedeva, sotto le maniche,
Il madore delle braccia qua e là traspirare.
Un rossore le saliva al petto sanguigno.
Fissò su di me lo sguardo sfrontato,
Slacciò la camicia; e il seno rotondo
Spuntò, doppio e lucente, in piena libertà,
Separato a livello dei capezzoli, ampio e solido.
Batteva i panni, e ogni colpo
Agitava a tratti con un rapido sobbalzo
I fiori rosa di carne che si ergevano sulla punta.
Un’aria calda mi colpì, come un soffio di fucina,
A ciascuno dei sospiri che le sollevavano il petto.
I colpi della sua mestola mi cadevano sul cuore!
Mi guardava con un’aria un po’ beffarda;
Mi avvicinai, gli occhi protesi sul suo petto umido
Di gocce d’acqua, così bianco e che invitava i miei baci.
Ebbe pietà di me, vedendomi assai timido,
Prese per prima l’iniziativa e si mise a chiacchierare.
Come suoni perduti mi arrivavano le sue parole.
Non la ascoltavo, tanto la guardavo.
Attraverso il suo vestito semiaperto, da lontano, mi perdevo,
Indovinando ciò che vi era sotto e arso di folli ardori;
Poi, siccome stava per andarsene, mi disse a voce bassa
Di trovarmi la sera in fondo alla prateria.
Tutto ciò di cui ero colmo si allontanò sui suoi passi;
Il mio passato scomparve come un’acqua disseccata!
Tuttavia ero lieto, perché in me sentivo
Le ebbrezze cantare con la loro voce sonora.
Verso il cielo oscurato rivolgevo continuamente lo sguardo,
E la notte che calava mi pareva un’aurora!
II
Era lei per prima sul luogo dell’appuntamento,
Le corsi incontro e mi misi in ginocchio,
E lasciando scivolare le mie mani intorno alla sua vita
L’attirai. Ma lei, subito, si alzò.
E per i prati bagnati di luna si salvò.
Finalmente la raggiunsi, poiché in un cespuglio di rovi
Che lei non vide il suo piede si fermò.
Allora, le mie braccia che cingevano i suoi fianchi arrotondati,
Vicino a un albero, in riva all’acqua, la trascinai.
Lei, che avevo visto impudica e ardita,
Era pallida e turbata e piangeva piano,
Mentre io sentivo come un inebriamento
Di vigore che saliva dal suo deliquio pieno di emozione.
Quale è dunque e da dove viene questo fermento che smuove
Le viscere dell’uomo nell’ora dell’amore?
La luna illuminava i campi come in pieno giorno.
Brulicando nelle canne, il rumoroso popolo
Delle rane faceva un gran baccano.
Una quaglia in lontananza gettava il suo grido due volte ripetuto;
E come preludendo a qualche serenata,
Uccelli risvegliati cominciavano le loro canzoni.
Il vento mi pareva carico di amori lontani,
Appesantito di baci, pieno di caldi aliti
Che si sentono venire insieme a lunghi fremiti,
E che passano trascinando con sé ardori di incendi.
Istintivi calori scendevano dalla brezza intiepidita.
Pensai: «Quanti siamo, sotto il cielo infinito,
In questa dolce notte d’estate, quanti
Che un’angoscia solleva e l’istinto accoppia
Tra gli animali come tra gli uomini».
E io avrei voluto, io solo, essere tutto questo!
Le presi le dita e le baciai; tremò.
Le sue mani fresche odoravano di lavanda
E di timo, di cui profumava tutta la sua biancheria.
Sotto la mia bocca i suoi seni avevano un gusto di mandorla
Come un lauro selvatico o il latte profumato
Che si beve in montagna dalle mammelle delle capre.
Si dibatteva; ma trovai le sue labbra!
Fu un bacio lungo come un’eternità
Che contrasse i nostri corpi nell’immobilità.
Cadde a terra, rantolando sotto la mia carezza;
Il suo petto oppresso e rigido alla tenerezza,
Ansimava fortemente con lunghi singulti.
La sua guancia era bruciante e gli occhi semichiusi;
E le nostre bocche, i nostri sensi, i nostri sospiri si mischiarono.
Poi, nella notte tranquilla quando la campagna dorme,
Un grido d’amore si levò, così terribile e forte
Che gli uccelli nell’ombra spaventati volarono via.
Le rane, la quaglia, e i rumori e le voci
Tacquero; un silenzio enorme riempì lo spazio.
All’improvviso, gettando ai venti una lugubre minaccia,
Molto lontano dietro di noi un cane ululò tre volte.
Ma quando il giorno apparve, come era rimasta,
Se ne andò. Errai nei campi senza meta.
Il profumo della sua pelle mi ossessionava; il suo sguardo
Mi legava come un’ancora gettata sul fondo del mio cuore.
Come due galeotti inchiodati agli stessi ferri,
Un legame ci imprigionava, l’affinità delle carni.
III
Per cinque interi mesi, ogni sera, sulla riva,
Pieni di un trasporto che mai si affievolì,
Ho accarezzato sull’erba come in un letto,
Questa ragazza superba, ignorante e lasciva.
E il mattino, morso ancora dal ricordo,
Nonostante profondamente illanguidito dai baci della veglia,
Dall’ora in cui, nella pianura, un canto d’uccello si risveglia,
Constatavamo che la notte tardava molto a venire.
Talvolta, dimenticando che il giorno dovesse spuntare,
Ci lasciavamo sorprendere abbracciati, dall’aurora.
Velocemente, ritornavamo lungo i sentieri chiari,
I miei occhi nei suoi, le sue mani nelle mie.
Vedevo accendersi delle luci tra le siepi,
Tronchi d’albero all’improvviso tingersi di rosso come piaghe,
Senza pensare che un sole stava sorgendo da qualche parte;
E credevo, sentendo la fronte bagnata di fiamme,
Che tutti quei bagliori scendessero dal suo sguardo.
Lei andava al lavatoio con le altre donne;
Io la seguivo, pieno di attesa e di desiderio.
Guardarla senza fine era il mio solo piacere;
Restavo in piedi nella stessa posizione,
Murato nel mio amore come in una prigione.
I contorni del suo corpo chiudevano il mio orizzonte;
La mia speranza si fermava ai nodi della sua cintura.
Rimanevo vicino a lei, spiando il momento
In cui altri avrebbero attirato a sé la gaiezza sempre pronta;
Mi chinavo velocemente, lei girava la testa,
Le nostre bocche si toccavano, poi fuggivano bruscamente.
A volte usciva chiamandomi con un gesto;
Andavo a raggiungerla in qualche campo di vigna,
O sotto un cespuglio che ci nascondeva agli occhi,
Guardavamo amarsi le bestie che si accoppiavano,
Quattro ali che portavano due farfalle gioiose,
Un doppio insetto nero che passeggiava per i sentieri.
Seria, lei raccoglieva quei piccoli innamorati
E li baciava. Spesso uccelli sopra le nostre teste
Amoreggiavano senza paura; e gli animali in coppia
Non ci temevano per nulla, dato che noi facevamo come loro.
Poi, il cuore tutto pieno di lei, a quest’ora tardiva
In cui attendevo, spiando impaziente le anse della riva,
Il momento in cui lei sarebbe apparsa sotto gli alti pioppi,
Il desiderio acceso nella pupilla bruna,
La gonna che spazzava via tutti i raggi di Luna
Sdraiati tra ogni albero attraverso i sentieri,
Sognavo l’amore delle ragazze bibliche,
Talmente belle che in quei tempi lontani si potevano vedere,
Sconvolti e nell’atto di seguire le loro forme impudiche,
Degli angeli che passavano nelle ombre della sera.
IV
Un giorno che il padrone dormiva davanti alla porta,
Verso mezzodì, il lavatoio si trovò spopolato.
La terra bollente fumava come un bue senza fiato
Che pena in pieno sole; ma trovavo meno forte
Il calore del cielo di quello dei miei sensi.
Nessun rumore veniva tranne dei lembi di canti
E risa d’ubriaco, di lontano, che usciva dai tuguri,
Poi la caduta di tanto in tanto di qualche goccia d’acqua,
Che scendeva chissà da dove, sudore della vecchia barca.
Ora, le sue labbra brillavano come carboni rossi
Da cui scaturivano all’improvviso crisi di baci,
Come da un braciere partono scintille,
Fino allo sfinimento dei nostri corpi spezzati.
Non si sentiva più nulla all’infuori delle cavallette,
Questo popolo del sole dagli eterni cri-cri
Che crepita come un fuoco tra i prati secchi.
E ci guardavamo, stupiti, immobili,
Così pallidi entrambi da farci paura,
Leggendo nei tratti scavati, neri, sotto i nostri occhi febbrili,
Che eravamo colpiti dall’amore di cui si muore,
E che attraverso tutti i nostri sensi scorreva la vita.
Ci siamo lasciati dicendoci a bassa voce
Che in riva all’acqua, la sera, non saremmo tornati.
Ma, alla solita ora, un invincibile desiderio
Mi prese di andare solo all’albero stabilito
Sognare le voluttà di quel corpo tanto amato,
Lasciar errare il mio spirito attraverso tutte le nostre carezze,
Sdraiarmi sull’erba e sul suo ricordo.
Quando mi avvicinai, ubriaco di antiche ebbrezze,
Lei era là, in piedi, che mi guardava arrivare.
Da allora, invasi da una febbre strana,
ci affrettiamo senza tregua in questo amore che ci divora.
Nonostante la morte ci afferri, un bisogno più potente
Ci attanaglia e ci obbliga a mischiare il nostro sangue.
I nostri ardori non sono affatto prudenti né pavidi;
Il terrore non turba i nostri sguardi infiammati;
Moriamo l’uno per l’altra, e i nostri petti incavati
Mutano i giorni futuri come altrettanti baci.
Non parliamo mai. Accanto a questa donna
Non è che un grido d’amore, quello del cervo che bramisce.
La mia pelle conserva senza fine il fremito della sua
Che mi riempie di un desiderio sempre aspro e nuovo;
E se la mia bocca ha sete, non è che della sua!
Il mio ardore si esaspera e la mia forza si abbatte
In questo accoppiamento mortale come una lotta.
Il prato che ci serviva da letto è bruciato;
E segnando il luogo del continuo ritorno
L’impronta dei nostri corpi è entrata nel suolo nudo.
Un bel mattino, sotto l’albero dove ci incontrammo,
Ci raccoglieranno tutti e due in riva all’acqua,
Saremo portati sul fondo di una barca pesante,
Abbracciati ancora per le scosse dei remi.
Poi, ci getteranno in qualche fossa nascosta,
come si fa con le persone morte nel peccato.
Ma allora, se è vero che le ombre ritornano,
Noi due ritorneremo, la sera, sotto gli alti pioppi;
E la gente del paese, che a lungo conserva il ricordo,
Vedendoci passare, l’uno all’altro allacciati,
Dirà, facendosi il segno della croce, e lo spirito in preghiera:
«Ecco il morto d’amore con la sua lavandaia».