Filippo La Porta, Il Sole 24 Ore 29/12/2013, 29 dicembre 2013
TRA I PREGIUDIZI DI UN SUD «SUDICIO»
Camminavano a passi veloci, figure erranti di donne e uomini con i loro animali: un lungo viaggio «da scuro a scuro» (dall’alba a tramonto avvenuto), una grande corsa contro la fame e la miseria, si fermavano solo alla fontana costruita nel dopoguerra dai quaccheri americani... Così l’etnologo Vittorio Teti rievoca come in sogno i contadini, braccianti, pastori della sua infanzia, all’inizio di Maledetto Sud (Einaudi). Si tratta di un saggio-pamphlet che non solo ricostruisce puntualmente i cliché e le opposte mitologie (spesso tra loro simmetriche) del Meridione, ma si presenta come avventurosa ricerca della propria spaesata identità.
L’autore, cresciuto in un paesino calabrese negli anni 50, comincia con il primo stereotipo appiccicato ai suoi conterranei – e per lui incomprensibile –, quello di essere oziosi e lenti, uno stereotipo prima associato dalle culture protestanti agli italiani (XVII secolo) e poi rovesciato dai mercanti fiorentini sui napoletani apatici. Ma come, nel mondo contadino il tempo libero non esisteva e chi oziava nelle cantine veniva guardato con diffidenza (perfino le processioni avvenivano in fretta)! L’ozio non causa ma conseguenza della distruzione di economie seguita all’Unità. E anche il recente elogio della lentezza come critica del capitalismo non può essere il ripristino di un modello esistente nel passato. Va bene andare lenti e meditare, però senza mitizzare una «realtà segnata da miseria e da fatica». Poi si passa all’invenzione, anch’essa positivistico-lombrosiana, della sporcizia come tratto etnico. Un parlamentare del Nord nel 1861: «Sono arrivati i sudici». Certo, la Napoli borbonica non brillava per igiene, ma tutte le grandi città europee nell’800 erano depositi di immondizia e letame maleodorante. E poi i meridionali immigrati di ritorno costruivano casette bianche, pulite e ariose. Poiché Saturno era il dio del letame, qui si aggiunge un ulteriore vizio, l’acedia, la saturnina melanconia da catastrofe, la predilezione per il colore nero. Dove la sfida è riuscire a formulare una malinconia "critica", capace cioè di ospitare il lato oscuro dell’esistenza (che il laicismo tende a rimuovere) e trasformarlo in energia vitale. L’altro lato della pietà popolare era infine l’empietà, il gusto di maledire – gli altri, il destino, se stessi, perfino i santi –, come avviene in numerosi rituali, liquidati come superstiziosi dalla modernità ma capaci di scaricare una angoscia legata alla «crisi della presenza» (de Martino). E qui si prefigura un’idea di modernità "plurale", capace di accogliere tradizioni e saperi diversi: siamo sicuri che, poniamo, l’assunzione di un antidepressivo sia in assoluto meglio di un canto funebre rituale?
Teti ci mette in guardia da un’identità reattiva, in cui il complesso di inferiorità diventa complesso di superiorità, poiché qualsiasi identità meridionale è fatta di scambi e mescolanze (la stessa ’ndrangheta non è sopravvivenza arcaica, anche se si è impossessata di luoghi e valori popolari, ma realtà postmoderna e globale). Complementare ai cliché leghisti è il mito estetizzante di un Sud genuino e pittoresco, dalle iconografie del popolo napoletano festaiolo e vulcanico al buon meridionale incontaminato: paesaggi, suoni, colori, sapori, pubblicizzati dai media e dall’industria. La celebre dieta mediterranea è una moda dell’oggi, estranea agli stili alimentari, peraltro diversissimi tra loro, dei paesi mediterranei! Il punto è che ogni valore del Sud convive con un disvalore: l’ospitalità può diventare invadenza, il dolce far niente assenteismo lavorativo, la gioia di vivere coazione all’allegria, la necessità di riparare continuamente propensione al non finito, la sensualità gusto del motteggio greve, la comunità negazione dell’individuo (anche Franco Cassano, cantore del pensiero meridiano, scrive che la modernità non è solo sviluppo ma «un’idea di fraternità più larga di quella della comunità»). Anche perciò l’ultima parola, come qui sottolinea Teti citando la "persuasione" di un intellettuale decisamente "nordico" come Michelstaedter, compete all’individuo e non alla comunità, ed è fatta di scelta etica e responsabilità, non di fedeltà alla tribù o identità di gruppo (come sapeva Edward Said).
Da bambino l’autore pensava di avere un sosia da qualche parte del mondo. Forse oggi il Sud inteso in una accezione utopica (alla Carlo Levi e Silone) non coincide più con un luogo ma si esprime come esperienza – drammatica o esaltante – della doppiezza: «Non si è questo o quello. Si è questo e quello. Non si resta e si fugge. Si sta fermi e si viaggia...». Il passato non va idealizzato ma riscattato come universo sommerso di potenzialità. In questa direzione si muove oggi la migliore narrativa e saggistica meridionale: dall’architetto casertano Beniamino Servino (contro il pittoresco e contro ogni ripristino di mitiche condizioni originarie) ai romanzi di Carmine Abate (vivere "per addizione") e del giovane Paolo Piccirillo (indifferente a qualsiasi enfasi sulle radici, più debitore a De André che a Verga). Sapendo che entro il mondo globalizzato siamo tutti erranti, nomadi, in esilio (Virgilio nel Purgatorio alle anime che gli chiedono la strada risponde: «Noi siam peregrini come voi siete»). Alla ricerca di una patria da ritrovare e inventare, e forse di un sosia. E spetta solo a ciascuno di noi scegliere ogni giorno un’appartenenza – benché peregrinante –, e dunque il proprio Sud e il proprio Nord, sempre in movimento.