Luca Pani, Il Sole 24 Ore 29/12/2013, 29 dicembre 2013
LA PANCIA HA LE SUE RAGIONI
Tre datteri al giorno e latte di cammello, niente di più. Per secoli- i beduini hanno camminato in uno dei deserti più ostili della terra, dove l’evoluzione aveva avuto tutto il tempo di selezionare programmi genetici, biochimici e metabolici per ottimizzare l’impiego dell’energia con un’efficienza superiore a quella del più moderno reattore nucleare. E invece, con la scoperta del petrolio e l’opulenza che ne è derivata, la pressione selettiva si è improvvisamente invertita trovandosi davanti a risorse alimentari illimitate e non riuscendo a capacitarsi del fatto che mentre per mille anni si mangiava poche volte al mese ora si poteva mangiare senza fermarsi per tutta la vita. Oggi la popolazione araba è tra quelle che paga il tributo più alto (insieme al Messico e non più agli Stati Uniti) all’epidemia di obesità patologica che sta mettendo a serio rischio la salute di milioni di cittadini in tutto il mondo. Alcuni anni fa mentre ero in Arabia Saudita per un ciclo di conferenze decisi di attraversare i mille km che separano Ryahd da Jeddah in macchina. Circa a metà strada mi fermai in un’oasi e incontrai casualmente un uomo straordinario. Aveva oltre ottant’anni e apparteneva a una famiglia-tribù che per quasi venti generazioni aveva condotto carovane su quella stessa tratta. Mi descrisse come, sino a ottocento anni prima, senza Gps o previsioni meteo, la sua gente si spostasse da un estremo all’altro della penisola arabica e come, durante questi lunghi viaggi, non mangiassero praticamente niente anche per un mese. Il vecchio che dimostrava almeno vent’anni in meno della sua età sia per lucidità sia per profondità del pensiero, asseriva con certezza che, grazie a questa abitudine, era in grado di accorgersi come il suo cervello percepisse il mondo in modo diverso e come i suoi sentimenti cambiassero, in meglio o in peggio, a seconda di quello che mangiava o non mangiava. Non credo che quel genio-beduino avesse mai letto autori come James e Lange che, oltre 150 anni fa, descrivevano per primi il cervello viscerale come responsabile delle nostre emozioni e non poteva conoscere la successiva diatriba con Cannon che postulava, invece, che sensazioni come paura e ansia fossero primariamente generate da aree subcorticali e che producessero, ma non vice-versa, movimenti dell’intestino. E tantomeno citò Damasio o Craig e le loro rispettive ipotesi sul «segnale somatico» o sulle «emozioni omeostatiche» che si basano su meta-rappresentazioni che aree specifiche del nostro cervello creano in base a precisi segnali che vengono proiettati dal corpo e, come sappiamo adesso, soprattutto dall’intestino. Non aveva bisogno di leggere tutta quella roba, perché aveva già capito tutto, comunque.
Aveva intuito che dalla periferia dell’impero del nostro corpo, quel viscido serpente che è il tubo digerente, si sarebbe ribellato al dominio apparentemente incontrastato del Sistema Nervoso Centrale e avrebbe chiesto quanto gli era dovuto. Si stima, infatti, che il Sistema nervoso enterico possieda tra 200 e 600 milioni di neuroni, un numero superiore a quelli di tutto il midollo spinale: controllare l’intestino richiede più intelligenza di quella che serve per tutto il resto del corpo. E come potrebbe essere altrimenti? La superficie interna del sistema digestivo è 100 volte maggiore di quella della pelle e alberga la più sterminata famiglia di commensali del nostro organismo. Cento trilioni tra batteri, virus e funghi vari per 40mila specie diverse e un numero di geni cento volte superiori a quelli del genoma umano. Il nostro sistema immunitario è, ad esempio, per l’80% residente nell’intestino che, come un avamposto silenzioso, presidia le frontiere con l’ambiente esterno e comunica costantemente con quello interno sino a riuscire a controllare persino le nostre strategie e i più reconditi pensieri.
Secondo questa teoria, chiunque di noi apparterebbe quindi a una specie complessa-mista di cui solo il 10% è costituito dal genere Homo Sapiens e il resto a dei sottogruppi di Bacteroides, Prevotellae, Ruminococci e molti altri microrganismi che restano ancora da definire in dettaglio ma che hanno iniziato a colonizzarci milioni di anni fa e hanno la capacità di modificare lo sviluppo e il funzionamento di tutto il nostro corpo, cervello compreso. Persino nei topolini cambiando opportunamente con anti-e pro-biotici la flora (sic!) intestinale si possono modificare i livelli d’ansia e l’attività motoria, cioè la quantità di cose da fare e la paura che potrebbero evocare.
Risultati degli ultimi tre anni aprono uno squarcio interessante e geniale sulla co-evoluzione di specie così distanti nella storia. Gli archeobatteri, e non solo loro, che ancora ospitiamo hanno la possibilità di riprodursi e quindi mutare ogni 20-180’ verificando in modo continuo i cambiamenti delle condizioni ambientali. Mentre dunque l’organismo che li ospita, il corpo umano, è soggetto a mutazioni e selezioni evolutive su scala almeno secolare, il nostro intestino può modificare tutta la popolazione ospite in pochi giorni. Alcune diete sono immediatamente seguite da un cambiamento dei microrganismi intestinali e almeno un paio di centinaia di migliaia di geni possono essere modificati in poche ore. Se fate fatica a crederlo sappiate che i segnali così prodotti sono percepiti consciamente solo in una minoranza dei casi, e più precisamente solo quando è richiesto un conseguente comportamento motorio (alimentarsi o defecare) mentre di quelli che influenzano la formazione delle memorie, l’attivazione emozionale e i comportamenti affettivi non c’è traccia apparente.
Dovremo rispettare di più il nostro sistema gastrointestinale e non trattarlo solo come un raccoglitore che metabolizza ed elimina. Conosciamo tutti l’effetto edonico del cibo (gusto e sazietà) e quello avversivo che deriva dall’irritazione delle mucose intestinali al punto tale che dopo una tossinfezione alimentare non riusciamo più a mangiare il cibo che l’ha prodotta. Definiamo, spesso erroneamente, questa esperienza come un’allergia alimentare quando invece non ha niente a che vedere con un fenomeno allergico quanto piuttosto con un raffinato meccanismo evolutivo di apprendimento per associazione. Il primo segnale evolutivo, correlato al cibo deve essere stato, come è logico supporre, direttamente legato alla sopravvivenza. Ingerire cibo che produce un beneficio salutare per l’organismo è un comportamento da ricordare e da ripetere mentre i cibi che potenzialmente possono produrre nausea, dolore intestinale o addirittura vomito devono essere evitati. Anche se avete smesso di bere latte da tempo o se magari lo bevete ancora, fate un piccolo esperimento e lasciate che vada a male in un bicchiere fuori dal frigorifero. Dopo alcuni giorni sarà inacidito e ve ne accorgerete solo dall’odore, senza neppure assaggiarne una goccia. È logico che i mammiferi, la cui prima infanzia dipende solo dal latte, non possano permettersi di stare male per un errore del genere, ma l’aspetto interessante che emerge dagli ultimi dati è un altro: quell’esperienza segnerà le vostre future scelte per sempre e non lo berrete mai più, quindi lasciatelo stare se è andato a male e se volete continuare a bervi un cappuccino la mattina. Se succede questo per un bicchiere di latte immaginate cosa capita tutte le volte che modificate la vostra dieta o non lo fate e seguite sempre gli stessi regimi alimentari senza pensare davvero a che cosa e perché state mangiando in quel momento. Il beduino aveva ragione: noi siamo quello che mangiamo o non mangiamo; anche per questo seguite la pancia ogni tanto, che ha più intelletto di quello che sembra, e potrebbe portarvi molto più lontano di quanto, al momento, si possa immaginare.