Sergio Luzzatto, Il Sole 24 Ore 29/12/2013, 29 dicembre 2013
DEI DELITTI E DELLE PENNE
Il quadro è tanto piccolo nelle misure quanto celebre nel soggetto. Dipinto nel 1766 da Antonio Perego, rappresenta la cosiddetta Accademia dei Pugni: la compagnia scelta degli amici di Pietro Verri – un nobile milanese sulla trentina, fisicamente fascinoso, intellettualmente curioso, socialmente riottoso – che appena pochi anni prima si riunivano al pianterreno del nuovo palazzo di famiglia, in Contrada del Monte. Non che il luogo di raduno fosse un ambiente di lusso. Eccolo, è un semplice stanzone illuminato da una portafinestra e scaldato da una stufa di ceramica bianca. Qui il padrone di casa e suo fratello minore, Alessandro, figurano con cinque altri giovani aristocratici (non ingannino le candide parrucche: eccetto Pietro, hanno tutti vent’anni o poco più) in una scena di «conversazione», come allora si diceva, che finirà per valere da simbolo dell’illuminismo italiano.
Se Pietro Verri, il committente del quadro al centro del gruppo, sta giocando a dadi con uno degli amici, e se un altro ospite passeggia dietro di loro con il naso affondato in un manoscritto, al tavolo presso la portafinestra la conversazione è studiosa. Il marchesino Cesare Beccaria, che ammira Pietro fin da quando, ragazzo, lo ha incrociato al Collegio dei nobili di Parma, legge ad alta voce da un volume che tiene in mano: sta dettando qualcosa ad Alessandro Verri, che prende appunti accanto a lui mentre un altro ospite ancora, di spalle, ha qualcosa da ridire.
Ritratta a posteriori – quando l’Accademia dei Pugni si era ormai sciolta, vittima del suo stesso successo – questa scena di gruppo dovrebbe campeggiare sulla copertina in ogni edizione moderna di un libro inizialmente pubblicato anonimo, nel 1764, e poi singolarmente attribuito a uno dei personaggi del quadro: Dei delitti e delle pene, il trattatello sulla giustizia penale che schiuse al venticinquenne Beccaria, ignoto fino a quel punto, un folgorante destino da star internazionale dei Lumi. In effetti, pochi testi chiave della «filosofia» illuministica derivarono altrettanto da un lavoro d’équipe. Nel caso specifico, decisivo fu il contributo offerto a Beccaria dai fratelli Verri. Che avrebbero presto maturato una forma di risentimento verso l’amico dei Pugni, osannato dai philosophes dell’Europa intera come autore unico di un’opera la quale, in realtà, era stata pensata da più teste e redatta da più mani.
Non che Beccaria mancasse di talenti. «È una testa calcolatrice sino al sublime» aveva giudicato il maggiore dei Verri nel 1761, rendendo omaggio a qualità d’ingegno che fin dai tempi del collegio avevano meritato a Cesare il soprannome di «Newtoncino». Diversamente da Pietro e al pari di Alessandro, il futuro autore dei Delitti aveva completato, a Pavia, studi universitari di diritto. E come il contino Verri, così il marchesino Beccaria si era ribellato al clima opprimente dell’aristocrazia milanese. Innamorato della figlia di un militare, la diciassettenne Teresa Blasco, aveva sfidato i fulmini del padre prendendola in sposa e accettando per questo di vivere sobriamente in una casa d’affitto. Nel 1762 Teresa gli aveva dato una figlia, Giulia, che sarà la madre di Alessandro Manzoni. Al marito, però, Teresa dava anche dispiaceri. Inclusa una liaison con Pietro Verri consumata nei mesi stessi dell’autunno-inverno 1763-64 durante i quali – nello stanzone al pianterreno di Contrada del Monte – andava nascendo il libro-capolavoro.
Dal 1° giugno 1764, l’esperienza di un periodico come «Il Caffè» avrebbe dimostrato quanto larghi e variegati fossero gli interessi dei giovani aristocratici riuniti in casa Verri: interessi letterari, scientifici, politici, sociali. E «Il Caffè» avrebbe dimostrato quanto libera e spregiudicata potesse riuscire la critica che i soci dei Pugni muovevano verso un po’ tutto l’ordine d’antico regime. Ma c’era un elemento portante di tale ordine che i soci volevano tenere, più di ogni altro, al centro del loro mirino: era l’amministrazione della giustizia. Erano i cavilli della tradizione giuridica lombarda, erano le assurdità del diritto e le iniquità della procedura penale, era la vergogna della tortura.
L’ingiustizia della giustizia nella Milano asburgica, Pietro e Alessandro Verri l’avevano entrambi toccata con mano, più direttamente di Cesare Beccaria attraverso la sua laurea in giurisprudenza. Dapprima Pietro nel biennio 1751-52, poi Alessandro a partire dal 1763, i due fratelli avevano ricoperto infatti l’ufficio di Protettore dei carcerati. Erano stati membri di un’antica congregazione, detta Società della Malastalla dal nome del più importante carcere milanese, che forniva ai detenuti varie forme di assistenza. Come rappresentanti della nobiltà presso la Malastalla, i Verri avevano sperimentato le miserevoli condizioni di vita nelle prigioni, avevano fornito (almeno Alessandro, e proprio nel 1763-64) tutela legale ai detenuti indigenti (quasi tutti), avevano denunciato i frequenti soprusi dei carcerieri sui carcerati o dei carcerati gli uni sugli altri.
Affondano qui le radici, esistenziali oltreché culturali, di Dei delitti e delle pene. Sia chiaro, l’autore del libro era pur sempre Cesare Beccaria. A lui si deve, se non forse la concezione di un’opera che stava più nelle priorità ideologiche di Pietro Verri e nelle corde letterarie di Alessandro, certamente la prima stesura del manoscritto. Ma Pietro ebbe poi cura di «porre in netto» l’originale, ripulendone lo stile, organizzandone la struttura, rafforzandone la cifra di trattato giuridico piuttosto che di pamphlet filosofico, e temperandone le affermazioni più radicali in materia di religione e di morale. Dopo avere lungamente studiato le fonti autografe, le carte Beccaria come le carte Verri, gli specialisti dei Lumi lombardi – uno su tutti, Gianni Francioni – concordano oggi nel leggere il libro maggiore del nostro Settecento come il frutto di una collaborazione a quattro mani. Per dirlo con una battuta: restituiscono a Cesare quel che è di Cesare, ma a Pietro quel che è di Pietro.
Formidabile macchina da guerra scagliata contro un intero sistema di governo della legge, Dei delitti e delle pene aveva la forza dei libri epocali perché rovesciava dalle fondamenta un intero sistema di pensiero della società. Desacralizzava il diritto penale, distinguendo una volta per tutte il delitto dal peccato, il danno dalla colpa, la pena dall’espiazione. E inaugurava così – ha sostenuto Franco Venturi, storico insuperato del Settecento riformatore – un’autentica rivoluzione. Poiché su simili basi il diritto di punire non competeva più, evidentemente, né a un tribunale della fede religiosa, né a un tribunale del privilegio oligarchico: soltanto competeva a una laica società di uomini liberi e uguali. La desacralizzazione del diritto penale implicava, in prospettiva, l’applicazione di un democratico Contrat social, quale Jean-Jacques Rousseau aveva teorizzato in quell’altro libro epocale uscito appena due anni prima del libro di Beccaria.
Oltreché dell’egualitarismo di Rousseau, i Delitti erano filosoficamente tributari dell’utilitarismo di Helvétius. Anche il De l’esprit di quest’ultimo era uscito da poco, nel 1758. La proposta di una nuova teoria e di una nuova pratica della giustizia penale muoveva appunto, in Beccaria, da una riflessione sull’individuo e sulla società che mediante Helvétius traduceva i concetti di bene e di male in quelli di utile e di dannoso. L’assunto stesso del libro di Beccaria – la necessità di ricalcolare la proporzione tra i delitti e le pene – derivava dall’idea utilitaristica che il danno sociale rappresentasse l’unico criterio pertinente per commisurare la gravità di un delitto, dunque la severità di una pena. E per questa via l’argomentazione dei Delitti sfociava, fra l’altro, nel rigetto della pena di morte: non giusta, non necessaria, e neanche utile.
Come detto, il successo europeo del libro di Beccaria fu tale da guastare i rapporti dell’autore con i fratelli Verri, fino a una completa rottura entro l’inizio del 1767. Sicché nel marzo del ’68, scrivendo ad Alessandro intanto stabilitosi a Roma, Pietro evocava il quadro dipinto da Antonio Perego due anni prima – quella memorabile scena di «conversazione» – come la testimonianza ormai patetica di un tempo perduto: «Tale è lo stato della fu Accademia de’ Pugni, per cui mi manca il coraggio di far terminare il quadro ora che, dopo i cambiamenti successi, non è più quasi decente l’esservi in compagnia».
Ma era, questo di Pietro Verri, un giudizio troppo severo, che oggi rifiuteremmo mille volte di far nostro. Proprio a quella studiosa, appassionata, battagliera compagnia di Contrada del Monte la posterità è debitrice, per il tramite dei Delitti, di una lezione di civiltà intorno al diritto penale (e al diritto penitenziario) che non ha perso, nei successivi duecentocinquant’anni, uno iota della sua forza. Né ha perso – a giudicare dallo stato presente delle nostre carceri – uno iota della sua attualità.