Morya Longo, Il Sole 24 Ore 29/12/2013, 29 dicembre 2013
QUANDO A SALVARE LE BANCHE ERA LA GERMANIA
Non solo i derivati Alexandria e Santorini. Non solo la "banda del 5%". Non solo la dissennata difesa di una senesità obsoleta. Il Monte dei Paschi ha avuto a sfavore anche il calendario: perché se la crisi di Rocca Salimbeni si fosse presentata nel 2007-2008 e non nel 2012-2013, nessuno avrebbe avuto nulla da dire. Probabilmente neppure Bruxelles. Nei primi anni della crisi finanziaria, dopo il crack di Lehman, di banche salvate e nazionalizzate in Europa ce ne sono infatti state a decine
La Gran Bretagna ha nazionalizzato colossi come Royal Bank of Scotland e Lloyds. La Germania ha messo sotto il controllo pubblico la Hypo Real Estate bank. L’Austria ha fatto lo stesso con Kommunalkredit e Hypo group Alpe Adria. E nessuno ha battuto ciglio. Neppure Bruxelles. Ora, cinque anni più tardi, operazioni di questo tipo sarebbero impossibili: ormai le regole sono diverse. Ormai a pagare il conto per primi devono essere gli investitori privati. Risparmiatori inclusi.
La stagione dei salvataggi
I salvataggi bancari in Europa sono stati all’ordine del giorno negli anni più duri della crisi. R&S Mediobanca ha calcolato a giugno 2012 che per aiutare le proprie banche, con aumenti di capitale sottoscritti dalla mano pubblica oppure con garanzie, gli Stati del Vecchio continente hanno speso (o vincolato a garanzia) ben 2.696 miliardi di euro. Altre stime più recenti parlano di 4.500 miliardi a livello di Unione europea. Da allora più della metà di questi soldi sono però rientrati nelle casse degli Stati, dato che la crisi bancaria – proprio grazie alla massiccia campagna di salvataggi di quegli anni - è in gran parte rientrata.
Anche la Germania, che oggi tuona contro l’ipotesi di usare i soldi dei contribuenti per salvare le banche, negli anni passati era di parere opposto: il Governo ha infatti speso 47 miliardi per ricapitalizzare o nazionalizzare le banche in crisi (11 volte più dei Monti-Bond) e 365 miliardi per garantirle. Anche attraverso il braccio finanziario Kfw (80% del Governo federale e 20% dei Land) ha salvato banche come Ikb, dove alla fine ha speso (e poi recuperato) 21 miliardi di euro. Altro che i 4 miliardi di Monti-bond: i soldi spesi sono stati molti di più in Germania.
Lo scenario futuro
Nell’eventualità che in futuro possa toccare all’Italia o a qualche altro Paese la necessità di salvare una banca in crisi, tutto sarebbe diverso. Intervenire con soldi pubblici come si faceva nel 2008 non è più possibile. Perché l’Europa, proprio per evitare che ogni Paese facesse a modo suo, ha appena approvato una normativa che disciplina le nuove modalità con cui dal 2015 andranno gestite le crisi bancarie. La logica della riforma è: i primi a pagare il conto della crisi devono essere gli investitori privati. Cioè – a scalare – gli azionisti, poi gli obbligazionisti subordinati, poi quelli senior e infine i correntisti con depositi superiori ai 100mila euro.
Questi devono contribuire a coprire il buco fino a un importo pari all’8% del totale passività della banca in crisi. Solo dopo, se il loro contributo non fosse sufficiente per risanare l’istituto di credito, entrerà in funzione un fondo europeo di risoluzione finanziato dalle banche di tutta Europa. Questo fondo entrerà nel vivo tra 10 anni, ma nel frattempo l’Europa ha trovato un accordo (un po’ fumoso in realtà) per gestire il periodo intermedio.
Il nuovo meccanismo di salvataggio entrerà in vigore nei prossimi anni, ma già nei mesi passati – come hanno dimostrato le crisi di Cipro o dell’olandese Sns Bank – gli investitori privati sono stati chiamati a pagare il conto per primi. Dunque il principio del «prima pagano gli investitori» è ormai assodato, prima ancora che nelle regole, nel modus operandi. Se questo principio venisse applicato in Italia (l’ipotesi è solo teorica), le obbligazioni sarebbero più che sufficienti per arrivare alla soglia dell’8%: secondo i dati Bce elaborati dal Sole 24 Ore, infatti, mediamente le banche italiane hanno sul mercato una quantità di obbligazioni (subordinate e senior) pari al 22,3% del totale passività delle banche stesse.
Difficilmente, dunque, in Italia verrebbero intaccati i depositi in caso di una qualunque crisi bancaria. Il problema, però, è che buona parte dei bond bancari sono in mano ai risparmiatori. Insomma: le famiglie sarebbero penalizzate.