Roberto Galaverni, Corriere della Sera 27/12/2013, 27 dicembre 2013
BANDINI, POETA IN CERCA DELL’IGNOTO
Fernando Bandini amava l’inverno. Dicembre e il Natale, soprattutto. All’inverno e al Natale aveva legato non a caso il suo libro più bello, Santi di Dicembre , appunto. «Dimmi se il cielo cova / una nuova moneta per il viaggio / di nuovi Re, / se dobbiamo aspettarli – io che aspettavo / Natale, la sua aureola / di lumi e la sua pace…», era l’auspicio dei Versi scritti durante le feste di Natale del 1989. E adesso che il destino ha scelto con cura questi giorni e queste feste per la sua dipartita, mi piace immaginare che il poeta di Vicenza abbia eletto proprio quei versi a viatico per il suo ultimo viaggio, come la moneta che gli antichi portavano con sé.
E antica, legata insieme al retaggio della letteratura latina e della grande tradizione poetica italiana, è anche l’idea di poesia che Bandini ha sempre coltivato. Questo non gli ha impedito affatto di essere fino in fondo un uomo del suo tempo, di continuare a credere negli altri, nella possibilità di una maggiore giustizia della storia, e d’impegnarsi allora in prima persona per le sorti del proprio Paese e della sua città. Anzi, un certo sentimento del dovere pubblico e delle virtù civiche gli veniva proprio di lì, dalla letteratura, dai poeti che più amava e che ricordava molto spesso a memoria, con una conoscenza che lasciava ammirati, e in verità anche un po’ invidiosi, dei minimi ma fondamentali dettagli tecnici, delle risorse stilistiche, dei cosiddetti segreti d’officina.
È proprio questo a cui alludo: al modo dei classici la poesia per Bandini è anzitutto mestiere, competenza, vale a dire conoscenza e padronanza dei mezzi espressivi. E dunque tecnica, capacità di fare, costruzione oggettiva, arte intesa in senso etimologico, civiltà poetica. Per questo le viene anche riconosciuto — forza e vincolo, insieme — uno spiccato significato istituzionale, di convenzione che l’esperienza dei poeti ha via via definito nel tempo come se si trattasse di un diritto consuetudinario. Il senso pieno, forse l’unico davvero plausibile della tradizione non è altri che questo, del resto.
Così si è già nel pieno campo di tensioni di un’alchimia compositiva piuttosto singolare. Proprio per la sua concezione eminentemente tecnica e formale, infatti, in Bandini la poesia sembra arrivare soltanto al termine del procedimento creativo. Mi spiego. Il verso, il rigore dell’esercizio metrico e insomma tutta la solidissima macchina retorica, non intendono affatto prendere le misure e regolarizzare una spinta emotiva, una propulsione passionale o sentimentale altrimenti informi e lasciate a se stesse. No, da questo punto di vista non c’è nulla da contenere o da imbrigliare. All’opposto, il mezzo tecnico è per Bandini un’opportunità per trovare e raggiungere la poesia proprio là dove non la si vedeva o non si riusciva a credere che fosse, per riconoscere legittimità, verità e soprattutto intensità ai sentimenti più riposti e inarrivabili del proprio animo, per scoprire, mi si permetta, la qualità, il soffio poetico della propria esistenza. La forma, dunque, non come una costrizione, ma come il tramite di una liberazione.
In Bandini molte cose sembrano funzionare al contrario rispetto ai più prevedibili procedimenti compositivi. Non dal fluido al solido, ma dal solido al fluido. Accade un po’ come nel rapporto del poeta con la sua amata Vicenza, sempre designata attraverso il palindromo Aznèciv, a metà tra la critica, il non poterne più da un lato, e il miraggio dall’altro. Come se nel rovescio della città presente ne lievitasse comunque un’altra, uguale e diversa, oscillante tra il ricordo e il sogno. Allo stesso modo i versi di Bandini vivono di un contrasto fondamentale— mi sembra questo il loro tratto più pregevole e originale — tra il grande rigore formale e un immaginario poetico irregolare, sghembo, sempre un poco stralunato. I contenuti prosastici, comuni, quotidiani (la parola è oltremodo equivoca, lo so) sono spesso attraversati da un brivido di stranezza, se non di estraneità. Piante e animali dai nomi bizzarri, ricordi di accadimenti singolari, constatazioni insolite, associazioni impreviste. Il poeta metrico è zoppicante come pochi, lo scrittore della maturità può davvero cullare le curiosità e i sogni di un bambino. Per sua fortuna.
Al riguardo ha detto bene Andrea Zanzotto, quando, riferendosi al laboratorio poetico trilingue di Bandini (italiano, latino e vicentino), nonché al suo grande amore per Pascoli, lo ha definito un «dotto fanciullino, ma negli anni del tardo Novecento». Ed è giusto. «Così verso un Altrove ignoto spesso / si dirigono inquieti i miei pensieri, / a un paese che sembra emerso ieri / dal diluvio, grondante ancora e intatto». Le sue misuratissime parole in metrica sono capaci di una malinconia, di una dolcezza, perfino di un candore sorprendentemente diretti, e tante volte incantevoli. Fernando Bandini: così agguerrito, così disarmato.