Anna Meldolesi, Corriere della Sera 28/12/2013, 28 dicembre 2013
IL DESTINO DELLA LINGUA FRANCA PER ECCELLENZA? DIPENDE DA COME LA UTILIZZEREMO NOI «NON-NATIVI»
Credevate che l’inglese avrebbe colonizzato la torre di Babele e si sarebbe imposto come l’unica superlingua del futuro? Contrordine compagni: l’inglese resterà una lingua franca, ma il nostro destino si chiama multilinguismo. Continueremo a parlare (più o meno) come Dante, dovremo imparare a esprimerci come i nipotini di Shakespeare, e i più bravi studieranno anche un terzo idioma di forte impatto «regionale», il mandarino per esempio. I vantaggi saranno lavorativi, culturali e cognitivi addirittura: praticare più lingue, infatti, tiene in esercizio il cervello.
Il cinese ha il maggior numero di parlanti nativi nel mondo, nel 2050 deterrà ancora il primato ma non diventerà la nostra lingua ponte. Le quattro lingue che lo seguono tendono al pareggio, con inglese e spagnolo insidiati da hindi-urdu e arabo. Nella classifica delle più parlate, intanto, è già partita l’offensiva di bengalese, tamil e malese. I rapporti di forza cambiano sotto la spinta dei trend demografici e delle nuove forme di comunicazione, ha spiegato su Science lo studioso britannico David Graddol. Negli angoli remoti del mondo ci sono linguaggi che si estinguono, mentre nei contesti urbani emergono nuove forme ibride con pronuncia e grammatica flessibili. Il sistema linguistico mondiale non è più quello degli Stati nazione, dei testi stampati, delle regole standard che si sono affermate nel corso dei secoli. Ormai le relazioni internazionali sono routine, nel web è saltato il confine tra scritto e parlato, i neologismi invadono il vocabolario. L’inglese, che oggi è un passepartout dalla scienza alla finanza alla diplomazia, continuerà ad avere un ruolo cruciale nel nuovo ordine linguistico, ma il suo effetto più importante sarà quello di creare nuove generazioni di bilingui e multilingui nel mondo. Noi dobbiamo imparare l’inglese, ma l’evoluzione dell’inglese dipenderà da come lo parleranno i non-nativi. Quella che sembrava una monocultura, notate l’ironia, è diventata plurale. Mentre negli Stati Uniti avanza lo spagnolo, nel Nord Europa l’inglese è già di casa. La Francia, Paese simbolo del protezionismo linguistico, è in transizione. Libération , ad esempio, è uscita con la scritta «Let’s do it» in prima pagina, schierandosi a favore dell’uso dell’inglese nelle aule universitarie. Quanto all’Italia della crisi economica, non può certo rinunciare a parlare e fare affari con l’estero. In effetti riconosciamo all’inglese più importanza di quanto facciano gli altri europei, ma continuiamo a padroneggiarlo meno. Secondo l’ultimo eurobarometro sull’argomento, il nostro Paese ha la percentuale più bassa di abitanti in grado di parlare una lingua straniera (62%, e si tratta di un’autodichiarazione) ma vive anche una forte crescita delle persone che di lingue straniere ne conoscono due (22%). Studiarle a scuola non basta, ed ecco che si ricorre a corsi di gruppo, lezioni individuali, viaggi, conversazioni con madrelingua, corsi audio-video, metodi fai-da-te. Solo il 35% degli italiani, comunque, capisce una lingua straniera abbastanza bene da ascoltare un notiziario o leggere un articolo (la media europea è del 44%).
La trasformazione in atto è complicata anche sul web, spiega Ethan Zuckerman nel libro «Rewire» dedicato al cosmopolitismo digitale. Dieci anni fa i contenuti online erano in English al 70-80%. Nel frattempo però sono aumentati drammaticamente gli utenti che non si limitano a leggere ma scrivono anche, e lo fanno nella loro lingua madre. I social network come Facebook e Twitter sono difficili da indicizzare, ma c’è chi stima che abbiano contribuito a far scendere il tasso inglese del ciberspazio sotto il 40%. L’avanguardia dei blogger arabi qualche anno fa scriveva in inglese rivolgendosi a lettori principalmente stranieri. Oggi molti postano in arabo, perché sono aumentati gli arabi dotati di connessione. A volte gli stessi blogger usano un idioma o l’altro a seconda dei pubblici che vogliono raggiungere. Le differenze linguistiche, insomma, si stanno dimostrando più persistenti del previsto e il vantaggio con cui l’inglese ha iniziato la ciber-corsa non è stato sufficiente a trasformare la predominanza in monopolio. C’è un ultimo mito da sfatare secondo Graddol. L’internazionalizzazione dell’inglese non sarebbe tanto figlia della potenza anglo-americana, quanto della nascita dell’Unione Europea. Ci sono più tedeschi che inglesi in Europa, ma per parlare con loro negli ultimi decenni non abbiamo usato la lingua di Goethe. Una dimostrazione in più che l’inglese di oggi e di domani non si decide solo a Londra e a New York. La lingua di Sua Maestà è anche nostra.