Riccardo Crivelli, La Gazzetta dello Sport 29/12/2013, 29 dicembre 2013
QUELLA PAUSA CHE PIACE A VOLLEY, HOCKEY E BASKET
Per una volta, i parenti poveri sono arrivati prima. Se il calcio discute da anni sull’opportunità di introdurre timeout durante le partite, i figli minori del calcio a 5 si sono già dotati della regola: i tecnici possono chiamarne uno per tempo della durata di un minuto, ma se una delle squadre entra in campo prima, il tempo scade.
Decide la tv Del resto, il minuto di sospensione è un compagno ormai di lunga data di quasi tutti gli sport di squadra e quasi un’arte a metà tra la tattica e la stregoneria (agonistica, s’intende) nel variegato mondo degli sport americani. Dici timeout e la mente corre subito al basket, la disciplina che ne ha indubbiamente sublimato il fascino e le strategie. In Italia, se ne possono chiamare due nel primo tempo, tre nel secondo e uno nel supplementare, sempre e soltanto dagli allenatori. L’Eurolega, da quest’anno, ha modificato il regolamento, introducendo pure i timeout da 30 secondi, avvicinandosi perciò al modello della Nba, dove sono contemplate, accanto a quelle tradizionali da 60 secondi, anche le sospensioni di 20 secondi,che possono essere chiamate pure dai giocatori. Nella patria dello show business, però, doveva per forza accadere che il peso della televisione (e degli sponsor che pagano le inserzioni pubblicitarie) si facesse sentire sull’argomento. Così può accadere che le partite vengano interrotte per un timeout richiesto esplicitamente dalla tv, mentre nel college basket è addirittura previsto che i match con copertura televisiva, radiofonica o internet abbiano una diversa gestione numerica dei timeout a disposizione delle squadre.
Decisione maledetta Proprio a una partita di Ncaa si riferisce l’episodio più famoso legato a un timeout e, paradossalmente, a un timeout che non è mai esistito! Succede che nella finale per il titolo del 1993 contro North Carolina, la stella di Michigan Chris Webber, poi prima scelta assoluta al draft, con la sua squadra sotto di due a 11” dalla sirena, chiami il minuto di sospensione perché chiuso in un angolo del campo. Purtroppo per lui, la squadra li ha esauriti: fallo tecnico contro, come prevede il regolamento, e vittoria per gli avversari. La gag sull’ignoranza di quanti timeout ci siano a disposizione nel basket universitario accompagnerà Webber anche dopo la carriera da giocatore. Il minuto di sospensione (chiamiamolo così per convenzione, anche se la durata cambia a seconda degli sport) esiste anche nel volley (cui se ne aggiungono due, detti tecnici, dopo l’ottavo e il 16° punto di ogni set, eccetto il tiebreak), nella pallamano, nell’hockey ghiaccio e nella pallanuoto. In nessun altro sport, però, si toccano le vette di pathos del football.
Ghiaccio E questo perché di solito i timeout (tre per tempo) vengono chiamati alla fine e in situazioni del tutto particolari, con la partita in equilibrio e che dunque può essere stravolta da una singola giocata. Perciò si può presentare la necessità di fermare il gioco per studiare le ultime mosse, oppure per ritardare quelle dell’avversario, sperando che la sosta ne interrompa il momento favorevole. Anzi, nella Nfl è in pratica codificata la regola dell’«icing the kicker», cioè quella di «congelare» il giocatore che sta per effettuare il calcio da tre punti decisivo per le sorti dell’incontro. Il tecnico rivale chiama timeout per cercare di togliere concentrazione al kicker, ma il regolamento impedisce che si possa chiedere la sospensione più di una volta per lo stesso calcio. E comunque, nel 2007, l’allenatore dei Denver Broncos chiamò timeout per fermare il kicker dei Ravens, gli arbitri non sentirono e Bironas sbagliò. Accortisi dell’errore, concessero la sospensione e il kicker di Baltimore stavolta non fallì. La vendetta del tempo.