Marzio Breda, Corriere della Sera 28/12/2013, 28 dicembre 2013
L’OSSESSIONE DI UN RE AL COLLE
Quando Oscar Luigi Scalfaro lasciò il Quirinale, il 15 maggio 1999, l’«Economist» lo definì «Italy’s unneeded nanny», la bambinaia di cui l’Italia non ha bisogno. Secondo il settimanale inglese si era infatti comportato da «bambinaio capo», convinto che gli italiani dovessero essere «accuditi e guidati come bambini», dal punto di vista politico. Quattordici anni dopo, Marco Travaglio esprime giudizi analoghi su Giorgio Napolitano, dipingendolo come chi si crede «un padre, un maestro, anzi un istitutore che prende per mano i partiti e li conduce dove vuole lui, perché solo lui sa cos’è meglio per loro e per noi». Insomma: persuaso di essere «l’unico salvatore della Patria», avrebbe trasformato in monarchia la Repubblica. Ciò che spiega il titolo irridente scelto per un libro-inchiesta, Viva il re! (Chiarelettere), costruito per demolire l’undicesima, e raddoppiata, presidenza. Curiosità: dello Scalfaro «bambinaio» nel volume si approva tutto, del Napolitano «istitutore» tutto si biasima.
La tesi di fondo, per dimostrare la quale Travaglio impegna ogni sua risorsa di asfissiante polemista, è che questo capo dello Stato, «autoelevatosi a Tribunale morale», si sarebbe concesso troppo di tutto. Esercitando intermediazioni politiche. Interferendo nel processo di formazione delle leggi. Dettando, come premier-ombra, l’agenda ai governi di Monti e Letta, fondati sulla «dittatura delle larghe intese». Alterando la dialettica democratica con sabotaggi all’esecutivo Prodi e aiuti indebiti a quello di Berlusconi. Non basta. Attraverso «strappi, forzature e abusi», oltre a imporre un «presidenzialismo di fatto», avrebbe ostacolato i magistrati che «disturbano» le oligarchie e pilotato la propria rielezione. E ora, succeduto a se stesso, dilagherebbe, approfittando del sistema entrato in torsione, del marasma provocato dal voto di febbraio e dalle ricadute sociali della crisi economica.
Un testo che segue gli schemi narrativi di una requisitoria. Martellante, duro, a tinte livide. Un j’accuse nel quale, più che proporre un opinabile teorema, eccita i lettori a condividere un’idea fissa, la propria. Ecco come si aggiorna, in versione Travaglio, la mitologia della «scottante verità», il cui smascheramento è qui suggerito sincronizzando le mosse del Cavaliere e quelle di Napolitano, additato come suo complice oggettivo. Così, la guerra che il vicedirettore del «Fatto» aveva cominciato con un nemico finito fuori gioco, continua con un nuovo nemico. Tuttavia, applicate al Quirinale di oggi, queste teorie, per quanto possano apparire suggestive, non reggono.
L’esecrata prassi della moral suasion ? Vi ricorreva già Luigi Einaudi, basta scorrere le «raccomandazioni riservate» a sua firma nell’archivio storico del Colle. I deprecati «governi del presidente»? E che cosa furono quelli «semitecnici» di Ciampi e Dini, sotto Scalfaro? Insomma, da parecchio tempo i capi dello Stato non sono più (se mai lo sono stati) solo dei «taglianastri» e allargano secondo il bisogno — e senza deragliamenti — la «fisarmonica» dei poteri scritti nella Costituzione. Certo, le loro fortune o disgrazie dipendono anche da storie personali, ego esibito, temperamento, stile, empatia nel dialogo con i cittadini. E se scivolano in un’azione di indirizzo politico, devono accettare di essere criticati, e nella Seconda Repubblica lo sono stati tutti. Ciò che conta è quello che fanno e il contesto politico-istituzionale in cui lo fanno.
Prendiamo il focus di Travaglio sull’ultimo biennio di Napolitano. Quando, a fine 2011, Berlusconi si dimise e il capo dello Stato spedì Monti a Palazzo Chigi, i suoi indici di consenso crebbero fino all’80-90 per cento. L’«invenzione», considerata plausibile dai partiti, che la consacrarono con la fiducia in Parlamento, fu quindi apprezzata dagli italiani. Il governo tecnico fece quello che poté, compresi parecchi errori, poi addebitati al premier e, di riflesso, al suo «Lord protettore» sul Colle. Ma chi recrimina che la legislatura avrebbe dovuto essere troncata prima e a posteriori boccia la parentesi Monti, crede sul serio che, con l’assedio dei mercati e lo spread a 500, fosse preferibile perdere 3-4 mesi tra campagna elettorale e uno scontato calvario per insediare un esecutivo?
Sono domande che, per analogia, potrebbero essere estese all’esperienza di Letta, cominciata sulle macerie di un voto, dal quale sono uscite tre grandi minoranze, che qualcuno avrebbe preteso di bissare subito, trascurando tante incognite, in primis lo spettro di Weimar. In entrambi i casi vale il principio del costituzionalista Carlo Esposito, per il quale i presidenti diventano i «reggitori dello Stato nei momenti di crisi del sistema». È così che si è dischiusa quella «finestra per tempi eccezionali» citata da Napolitano al giuramento. Eccezionale la sua rielezione, dopo un pressing senza precedenti dei maggiori partiti. Eccezionale la fase politica che, per essere affrontata, richiedeva una formula diversa da quella auspicabile in un sistema bipolare dove ci siano un chiaro vincitore e una chiara opposizione.
Si sa, quando il risultato non rende praticabile nient’altro, si va a collaborare: si concorda una tregua e si stringe un patto (che in Italia diventa un odioso «inciucio») su qualche progetto condiviso. Accade nelle democrazie mature come la Germania, dove certo non si punta alla «stabilità sciapa» evocata dal Censis. Poteva essere lo stesso da noi, se i partiti, varato in Aula il governo, fossero stati responsabili e se non incombessero sempre le variabili dell’anomalia Berlusconi.
Ora, piaccia o no il suo modo di stare sulla scena, è fuor di dubbio che Napolitano ha salvato il salvabile. Utilizzando un potere da «moderatore e intermediario trasversale», come ha sentenziato la Consulta un anno fa. Ed esponendosi a giudizi critici, stavolta piegati alla sua delegittimazione (e, chissà, magari a far da base per la richiesta di impeachment minacciata da Grillo). Come le pagine in cui l’antipatizzante Travaglio fa parlare l’editorialista di «Repubblica» Barbara Spinelli, spietata, perfino sul piano umano, con il presidente. O come alcuni brani di diario di Tommaso Padoa-Schioppa, postumo testimone a carico, in cui si adombrano trappole quirinalizie contro Prodi.
Mettendo da parte lo scontro sulle intercettazioni con i pubblici ministeri di Palermo, troppo complesso per liquidarlo in poche righe, qualche domanda sorge spontanea. Non prova disagio, Travaglio, nello scoprirsi elogiato e fiancheggiato dai falchi del detestatissimo Berlusconi, che attaccano Napolitano con i suoi stessi slogan? E non ricorda che la leggenda del «reame di Napolistan» non è così nuova? Un altro polemista accanito e sfibrante, Vittorio Sgarbi, parlò di «cesaropapismo» e «brama di monarchia». Ma alludeva a Scalfaro.