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 2013  dicembre 27 Venerdì calendario

PUPI AVATI “UN MATRIMONIO VERO COME IL MIO”


Arriva finalmente su Rai 1 Un Matrimonio, un film in sei puntate al quale Pupi Avati tiene moltissimo. Prodotto da Rai Fiction, Un Matrimonio ha come interpreti principali Micaela Ramazzotti e Flavio Parenti. Ne parliamo con il settantacinquenne regista bolognese nel salotto di casa sua, nel centro di Roma.
Come sarà questo film?
«Sono sei parti di un unico film della durata complessiva di 600 minuti. Sarà una grande saga che più italiana non si può. Parte dal 1948 e si conclude verso il 2005. Racconta la storia di due persone che si conoscono sul greto del fiume Reno, a Sasso Marconi, si innamorano e poi si sposano. Però Un Matrimonio inizia con la celebrazione delle nozze d’oro, poi a ritroso racconta mezzo secolo di vicende familiari, ma usando un espediente narrativo».
Quale?
«La storia è narrata da una figlia adottiva della coppia, una ragazza paraplegica. I due sposi hanno due figli maschi e decidono di adottare una bambina. Quando vanno all’orfanotrofio scelgono una bimba che non cammina. Non è un gesto autobiografico, nella mia famiglia nessuno lo ha fatto, ma mi sarebbe piaciuto farlo, oppure che lo avesse compiuto qualcuno dei miei. La ragazza è la voce narrante, racconta la storia di suo padre e sua madre, con la capacità di chi è stato in casa più degli altri due figli».
Il film racconta anche mezzo secolo di storia italiana?
«Certo. Avendo come pretesto un matrimonio, ho narrato i mutamenti politici e sociali della storia del Paese. Le vicende politiche si riflettono anche in casa dei due protagonisti, perché lei è comunista, mentre lui è democristiano. Sullo sfondo c’è Bologna, una città abbastanza rappresentativa dei mutamenti del nostro vivere. Già all’epoca dei miei nonni si diceva che Bologna era una città con le orecchie lunghe, nel senso che ascoltava con un certo anticipo quello che si muoveva nella società e nella cultura. Per esempio il jazz si radicò prima a Bologna che nel resto d’Italia, tanto per citare un tema a me caro».
Quanto c’è di autobiografico nel suo film?
«Le figure di mio padre e mia madre le ho prese come modello per tutta la prima parte. Però mio padre morì quando avevo 12 anni, quindi il suo ruolo non era sostenibile per tutto il film. A quel punto ho immesso la mia esperienza di marito, continuativa e ostinata, che dura da 48 anni, sempre con la stessa donna».
Lo dice con orgoglio. Ci racconti qualcosa di sua moglie e dei suoi figli...
«Mia moglie è originaria di Salerno, ma fin da adolescente ha vissuto a Bologna. Si chiama Nicola, con la “a” finale, mi raccomando. Lo so, sembra strano, mia moglie ha un nome da uomo e io ho il nomignolo di un cane. Abbiamo tre figli e quattro nipoti. Maria Antonia mi aiuta nella regia e ha girato con me parte di Un Matrimonio, Tommaso fa lo sceneggiatore e Alvise, il figlio più piccolo, è un animatore 3D pieno di talento. Senza questa famiglia non sarei stato in grado di girare il film».
In che senso?
«Perché una storia così può essere raccontata solo da chi ha alle spalle un matrimonio di quasi 50 anni. La mia vita mi mette in grado di dire che cosa è davvero un matrimonio, nessun altro può permettersi di farlo».
Con chi ce l’ha?
«Con certi opinionisti che vanno in televisione e, mi scusi se lo dico a un giornale come Famiglia Cristiana, anche con qualche sacerdote. Parlano di matrimonio, ma che cosa ne sanno? Ci vuole tempo per giudicare. Un critico gastronomico non può entrare in un ristorante e assegnare le sue stellette dopo l’antipasto. Non si fa così. Devi mangiare antipasto, primo, secondo, contorno, dolce, caffè e poi dai le stellette. Il problema è continuare a stare seduti, perché magari ti sembra che l’antipasto non sia un granché. Oggi troppi matrimoni saltano dopo l’antipasto. Io sono nato nel 1938 e molti miei coetanei sono al secondo matrimonio. Per quelli nati dopo, le separazioni sono aumentate a livello esponenziale. Invece molte cose le scopri quasi alla fine della tua vita».
Per esempio?
«Io in questi ultimi anni ho scoperto perché ho sposato mia moglie e perché lei mi sta diventando così indispensabile: in quella donna ci sono totalmente io, è la persona che sa più di me al mondo e della quale io non so immaginare l’assenza. Perciò mi ostino a dire che chi non ha vissuto tutta intera l’esperienza del matrimonio fino in fondo non può parlarne, è come un film del quale non ha visto il finale».
Il tema la fa infervorare, come mai?
«Mi infervoro perché matrimonio vuol dire famiglia, cioè un legame forte che unisce marito, moglie e i figli. Sia chiaro, sono a favore di eventuali leggi per regolamentare i diritti dei conviventi, nessuna obiezione. Ma non si pregiudichi il sacramento del matrimonio, che va rispettato e non interpretato».
L’argomento della famiglia le sta evidentemente molto a cuore: pensa che lo tratterà ancora sullo schermo?
«L’ho fatto con Il bambino cattivo, mandato in onda da Rai 1 il 20 novembre, in occasione della Giornata internazionale dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza. Racconta come un bambino di 11 anni vede il disfacimento del matrimonio dei suoi genitori. L’ho fatto leggere a uno psicanalista, mi ha detto che sembrava davvero il diario di un bambino. Invece l’ho scritto io e non mi è costato fatica, perché a 75 anni posso dire di avere dentro di me tutte le età della vita».