Stefano Lorenzetto, Il Giornale 29/12/2013, 29 dicembre 2013
INTERVISTA A SEGALINI
Ne ha fatti piangere tanti, tantissimi, «soprattutto padri di famiglia». Quanti? «Non lo so, non ci devo pensare». Abbiamo tirato le somme insieme, ed era la prima volta che qualcuno lo costringeva a questa dolorosa contabilità: a spanne dovrebbero essere 12.000, forse di più. Il conto richiede la calcolatrice: «Fissavo almeno 12 appuntamenti al giorno, per cinque giorni la settimana. Quindi, 60 colloqui. Tolto il mese di ferie, fanno 2.880 in 48 settimane. Moltiplicato per quattro anni, 11.520. Che cos’ho combinato!».
Daniele Segalin era un tagliatore di teste. Licenziava operai. «Povera gente, perché operavo fra Argentina, Messico, Colombia e Venezuela. Per fortuna mai in Italia, ma può essere un merito?». Lo faceva per conto di una notissima azienda europea presente in 150 Paesi - «il nome non lo scriva, ci siamo lasciati malissimo» - che in quel periodo fu assorbita da una multinazionale con 80 miliardi di dollari di fatturato e 130.000 dipendenti. Troppi. Bisognava disboscare. Misero in mano l’accetta a lui.
Da allora sono trascorsi nove anni. Oggi Segalin ha capovolto la vita di prima nel suo contrario. Fa ridere la gente fino alle lacrime. Centinaia di persone per volta, ogni sera, sotto un tendone. È diventato un clown, un po’ per celia e un po’ per non morire. Si fa chiamare Dandy Danno, nome d’arte che ha una sua genesi: si considera stravagante, «di solito il clown è triste e povero, io volevo essere molto felice e molto ricco»; inoltre è piuttosto maldestro, «la nipote della mia morosa mi dice sempre che sono un danno, ho appena semidistrutto il box doccia perché uscendo non mi sono nemmeno accorto della porta trasparente». Si è deciso al gran salto dopo un lungo periodo di completa solitudine e una decina di sedute dallo psicologo. «Stavo da cani». Da oltre un anno lavora per il Festival international du cirque Lidia Togni.
Fino a marzo sarà in tournée in Sicilia. «Poi mi scadrà il contratto». Non è un licenziamento, ma quasi. Solo che la sua strada, a differenza di quella su cui sbatteva i lavoratori sudamericani, si presenta lastricata d’oro: «Mi è stato offerto di trasferirmi a Las Vegas in un famosissimo albergo con annesso teatro, che per scaramanzia non voglio neppure nominare, visto che non ho ancora firmato. Il top, per un clown. E non solo per un clown, considerata la qualità degli spettacoli che ospita».
Segalin ha compiuto 40 anni il 17 dicembre. È originario di Sandrigo, nel Vicentino, ma è cresciuto e ha tuttora la residenza a Malo, il paese da cui lo scrittore Luigi Meneghello, nativo del luogo, trasse nel 1963 la sua opera prima, che resta anche il suo libro più bello, Libera nos a Malo, un’autobiografia dal titolo costruito sull’ultima invocazione del Pater Noster per raccontare il mito dell’istituto-madre, la Compagnia, con la «c» maiuscola, club senza sede e senza regolamento costituito da compagni di scuola e vicini di contrada. «Ne ho fatto parte anch’io, però me ne sono andato presto. Prima a Vicenza, dove ho frequentato la Scuola d’arte e mestieri, e poi a Cavazzale, dove i miei genitori, oggi in pensione, avevano un’impresa orafa. Fino ai 24 anni ho inciso con il bulino decorazioni sulle catene d’oro».
Troppo pochi, però, i 25 chilometri che aveva messo fra sé e il paesello natio. Per liberarsi da Malo, non restava che fuggire dall’Italia. «Con due soci ho aperto una ditta per l’export dei prodotti di oreficeria. Battevo soprattutto la Spagna». Nel 2000 a Segalin arriva un’offerta d’impiego allettante: manager addetto alle risorse umane per un gruppo internazionale del ramo cosmetici. «È stata la mia rovina. Mi porto ancora addosso questo fardello. Nessuno riuscirà mai a togliermelo dalle spalle».
Che cosa le chiedevano di fare?
«Visitare in incognito i loro stabilimenti sparsi nel mondo e poi riferire alla casa madre quanti dipendenti si potevano licenziare. La direzione usava il verbo “snellire”».
Quante fabbriche ha «snellito»?
«Una ventina. Convocavo gli operai e gli comunicavo che dovevano trovarsi un altro lavoro. Fine. Meno durava l’esecuzione capitale e più venivi considerato bravo. In Argentina, ai tempi del default, ne ho spazzati via in questo modo a centinaia. Alcuni si presentavano al colloquio con otto figli al seguito, l’ultimo dei quali attaccato al collo della madre, e spesso anche con la nonna. Scene strazianti. E io sempre impassibile».
Da chi aveva imparato?
«Da chi l’aveva fatto prima di me. C’erano regole ben precise da seguire».
Quali?
«Non guardare negli occhi i prescelti: bisognava fissare lo sguardo all’altezza della fronte, in modo da non cogliere le espressioni di disperazione. Fingere d’essere indaffaratissimo e costringerli a qualche minuto di attesa. Mai contatti fisici, neanche una stretta di mano. Mai scusarsi, mai dire “mi dispiace”. Non cedere a nessuna richiesta. Se opponevano resistenza, congedarli con una frase del tipo “scusi, ora ho un impegno fuori sede”, e lasciarli da soli nella stanza: poi la segretaria li avrebbe fatti uscire».
Pigliava un tot per ogni licenziato?
«No, avevo uno stipendio fisso, 1.600 euro al mese, che comunque in Sudamerica dieci anni fa ti consentiva una vita da nababbo. Non servivano incentivi economici: se non fossi stato abile nel mio lavoro, sarei stato licenziato a mia volta».
Quindi non l’ha fatto per arricchirsi.
«Be’, però mi lasciavano usare la carta di credito aziendale per le spese personali e avevo una Jaguar in comodato».
Non le restava addosso il dolore dei licenziati?
«Ce l’ho tuttora addosso, se è per quello».
Quando decise di smettere?
«Nel 2004. Dalla sera alla mattina. Stavo in Argentina. Scappai via, letteralmente. Riuscirono a ritrovarmi. Insistevano perché riprendessi. Ma io non ho più voluto saperne. Chiuso. Ho persino rinunciato alla liquidazione».
Parrebbe una forma di espiazione.
«Più che altro di rimozione, sostiene lo psicologo. Infatti per un mese non sono più riuscito a parlare. Rientrato in Italia, ho affittato un localino a Torri di Quartesolo e mi sono rintanato lì. Uscivo solo per andare alle sedute di psicoterapia».
Che mestiere ha fatto dopo aver mollato la multinazionale?
«Il rappresentante di prodotti per i capelli. Ma ho resistito solo tre mesi. Ho seguito il consiglio di una parrucchiera: “Prenditi un anno sabbatico, va’ a fare l’animatore turistico”. Due giorni dopo ero in un villaggio vacanze a Giardini Naxos, dove ho conosciuto la mia fidanzata, Graziana, siciliana, che da allora mi fa da spalla, e non solo nel lavoro. Poi sono finito al Loano 2 Village, un resort della Liguria. E lì, durante uno spettacolo, ho incontrato Davide Larible».
Il grande clown. È nato nella mia città da famiglia francese.
«Il più grande al mondo. L’unico italiano ad aver vinto il Clown d’oro al Festival internazionale del circo di Montecarlo. Un onore che ha condiviso solo con altri due colleghi: il russo Oleg Popov e lo spagnolo Charlie Rivel, morto nel 1983. Appena l’ho visto, ho capito quale sarebbe stata la mia nuova missione nella vita: far ridere il prossimo».
C’è riuscito, mi pare.
«Questo non spetta a me dirlo. So soltanto che ho studiato tantissimo per prepararmi. Non ero mai soddisfatto. Allora mi sono detto: perché non prendere lezioni da Larible, il migliore di tutti? Pensi che è l’unico ad aver lavorato per 15 anni nel celeberrimo Ringling Bros and Barnum & Bailey, in America. E poi per Nock, Krone, Tower Circus, Bouglione. Solo che costava tantissimo. Ho cercato di organizzare un corso per più persone, 500 euro a testa, ma non sono riuscito a raccogliere iscritti a sufficienza. In quel momento stavo per comprarmi un’auto. Ho rinunciato alla macchina e mi sono preso Larible tutto per me. Una settimana. M’è costato 6.500 euro, incluso l’albergo. Alla fine il maestro mi ha detto: “È inutile che continui a nasconderti. Ora sei pronto, devi andare a esibirti davanti al pubblico pagante”».
Missione compiuta.
«Ho inviato il curriculum al Cirque du Soleil. Mi hanno scelto fra i primi 20 su oltre 2.000 curriculum pervenuti. Audizione al Piccolo Teatro di Milano. Ne hanno ingaggiati otto. Io non ero fra questi. “Non sei il personaggio che cerchiamo, ma hai un grande talento, quindi devi insistere”, mi ha spronato il selezionatore. Cinque giorni dopo mi ha telefonato Larible: “I Togni cercano un clown fresco, non convenzionale. T’interessa?”. In quel periodo si esibivano a Monastir. Sono volato laggiù a mie spese. Dopo la prima delle cinque uscite di prova in pista, mi hanno detto: “Il contratto è tuo”. Abbiamo girato tutta la Tunisia: Tunisi, Hammamet, Biserta, Korba, Kairouan. Non è facile far ridere i musulmani. C’è di mezzo il velo, guai a sfiorare i corpi, vietati i doppi sensi. Però verso la fine della tournée la gente mi riconosceva per strada».
Ma quanti sono questi Togni?
«Un’infinità. Dal 1872 a oggi, nove generazioni. Lidia, che in gioventù è stata trapezista, a 82 anni si prodiga ancora alle casse».
Com’è che ai figli imponevano nomi strani? Darix, Wioris, Holer, Divier, Nevia, Davio, Enis, Angly...
«I Togni provengono da Rio Saliceto e in molte località dell’Emilia usava così. Spesso si tratta dell’italianizzazione dei cognomi di famosi circensi stranieri».
Che doti sono richieste al clown?
«Una sola, secondo me: deve far trasparire la sua umanità. Il pubblico si conquista con il cuore. Solo così riesci a farlo ridere. A volte il primo a sorprendermene sono io. Dopo uno spettacolo a Palermo, una famigliola ha telefonato alla direzione: voleva invitare Dandy Danno a cena. Per ringraziarmi. Ho accettato al buio. È arrivato a prendermi Damiano, portalettere, con moglie e figlia. Mi ha caricato su una Ford Focus e mi ha portato a casa sua, un appartamento molto semplice. E siccome è un melomane, finito il dessert ha cantato in mio onore con voce tenorile alcuni brani lirici».
Che differenza c’è tra un clown e un pagliaccio?
«Un pagliaccio è il vestito, la caricatura. Una forma, ecco. Il clown è l’essenza. Sa far ridere in tutte le lingue, senza usarne nessuna. Deve solo dare, accontentandosi di non ricevere niente in cambio».
Quanti clown ufficiali ci sono Italia?
«Quelli famosi non credo che siano più di cinque o sei».
E non ufficiali?
«Milioni. Fanno ridere anche senza la pallina rossa sul naso».
Il più clown in politica?
«Massimo D’Alema, perché è quello che s’impegna più di tutti per non dare a vedere com’è fatto veramente. L’attore di se stesso. Forse più pagliaccio che clown. Ma non vorrei essere offensivo».
Si vede che non conosce l’etimologia della parola inglese clown.
«Cioè?».
In origine indicava il contadino rozzo, dal latino colonus, colono.
«Non lo sapevo. Querela evitata. Sa, io non amo i conflitti. L’ambiente circense è molto competitivo e spesso mi coglie una certa ansia perché temo che il mio successo possa provocare accese rivalità tra circhi e quindi tra famiglie. Perché il circo è un’unica, grande famiglia».
Ma che richiamo possono esercitare i clown e i circhi su ragazzi e adulti già sazi del troppo offerto da Tv, cinema, Internet?
«Il richiamo della tradizione. Quella che non morirà mai».
Non è che la gente abbia molta voglia di ridere, di questi tempi.
«Ha bisogno, non voglia. È diverso».
Non la spaventava l’idea di lasciare un lavoro sicuro per uno insicuro?
«No. Sono i rischi della vita. Non si deve aver paura della vita, altrimenti si finisce per diventare controfigure».
Si guadagna bene a fare il clown?
«Molto bene. Tutti gli italiani si lamentano, io no. Sono già anche troppo fortunato a essere me stesso. Non farei cambio con nessuno al mondo».
Ma lei ride sempre?
«Sì». (Ride di gusto). «Ho già pianto tanto».
L’ultima volta quando?
«Alla morte del mio nonno materno, Giulio Simoni, tre anni fa. Ne aveva 93 ma guidava ancora l’auto e continuava a combinare affari. Era un sensale formidabile. È morto sul lavoro, si può dire».
E lei che fine vorrebbe per sé, quando sarà il momento?
«Quella di Calvero, il clown interpretato da Charlie Chaplin in Luci della ribalta. Spiccare un salto rovinoso per conquistare il pubblico un’ultima volta. Cadere. Risata generale. Calvero muore senza che nessuno se ne accorga, con gli applausi nelle orecchie. Sipario. Sarebbe bellissimo».
Stefano Lorenzetto
LORENZETTO Stefano. 57 anni, veronese. È stato vicedirettore vicario del Giornale, collaboratore del Corriere della sera e autore di Internet café per la Rai. Scrive per Il Giornale, Panorama e Monsieur. Ultimo libro: Hic sunt leones (Marsilio).
LORENZETTO Stefano. 57 anni, veronese. Prima assunzione a L’Arena nel ’75. È stato vicedirettore vicario di Vittorio Feltri al Giornale, collaboratore del Corriere della sera e autore di Internet café per la Rai. Scrive per Il Giornale, Panorama e Monsieur. Tredici libri: La versione di Tosi e Hic sunt leones i più recenti. Ha vinto i premi Estense e Saint-Vincent di giornalismo. Le sue sterminate interviste l’hanno fatto entrare nel Guinness world records.