MICHELE FARINA, CORRIERE DELLA SERA 29/12/2013, 29 dicembre 2013
Repubbliche delle banane? Magari: bei tempi quando la Dominìca ne esportava 30 milioni di tonnellate all’anno
Repubbliche delle banane? Magari: bei tempi quando la Dominìca ne esportava 30 milioni di tonnellate all’anno. Adesso il bananificio delle Antille francesi riesce a spedirne all’estero a malapena 155mila tonnellate. Paradisi fiscali? Perduti (quasi): alle isole Cayman la registrazione di nuove banche e finanziarie specializzate in hedge fund è calata del 20%. Salvataggi internazionali? Miraggi benedetti dal cielo: a un recente incontro con i funzionari del Fondo Monetario il governo della piccola Grenada (100mila abitanti) si è presentato con un team di religiosi di varie confessioni per perorare (santificare) la causa di un prestito, mentre il primo ministro Keith Mitchell per spiegare ai cittadini la bontà delle misure di austerità è ricorso al vangelo di Matteo. I Caraibi in crisi non sanno più a che santo votarsi. Anche i pirati hanno fiutato l’aria e preferiscono altri lidi per le loro razzie (Africa ed Estremo Oriente). «Paralisi in paradiso» ha titolato il Financial Times . Tranquilli «Paesi da barca» e vibranti isole musicali (la Giamaica del reggae) tutti costretti a passare dal purgatorio del Fondo Monetario: dal 2010 almeno sei Paesi dell’area (la Giamaica due volte) sull’orlo della bancarotta hanno chiesto la ristrutturazione del debito. Toponimi da sogno come «Saint Kitts e Nevis» costretti a pietire prestiti all’estero manco fossero tra le Cicladi. Antigua e Barbuda che hanno perso ricchezza insieme a un terzo delle loro esportazioni petrolifere (anche) a vantaggio di Trinidad e Tobago, la più sana economia della zona che rimane un’oasi rispetto a Barbados in piena austerity. E se pensate di fuggire alle Bahamas, sappiate che il pil è sotto il livello del 2000 (del 5%) e che 317 abitanti su 100mila sono in prigione. I disastri della crisi economica mondiale, uniti ai crescenti sfracelli ambientali (uragani e e terremoti), si sono abbattuti sulle isole da sogno per eccellenza, i porti sicuri del nostro immaginario oltreché del portafoglio e delle vacanze (di alcuni fortunati). Proprio il turismo, per anni uno dei pilastri delle economie caraibiche, si sta riprendendo a poco a poco dalla botta della crisi post 2008. Con molte diversità: a Curaçao i visitatori sono crollati del 50% nel 2012, dimezzati anche nella francofona Guadalupa, mentre nella «povera pazza Haiti» i turisti sono raddoppiati nel giro di un decennio toccando quota un milione. Le esportazioni di banane sono in discesa un po’ dappertutto da quando il Caribe subisce la concorrenza dei giganti sudamericani, mentre tra isolette e arcipelaghi ancora restano aperte anzi fioriscono le rotte della droga. Le regole finanziarie più strette approvate a livello internazionale (anche se non da Cina e Russia) hanno ridotto il giro monetario e l’appeal dei paradisi fiscali offshore . In Giamaica la crisi si vede anche dall’inattività dei becchini, come racconta al FT l’impresario di pompe funebri Norman Blake di Kingston. Meno soldi in giro, meno funerali: il più economico offre una fossa per 4 euro (vestiti a carico della famiglia) e «anche così molti non se lo possono permettere». E’ soprattutto un male europeo-mediterraneo ad appannare il sole e il benessere (vero o sognato) lungo le spiagge del Caribe. E’ il virus del debito pubblico, che secondo il Fondo Monetario nella regione è pari al 70% del pil complessivo, mentre il deficit viaggia in media sull’onda perigliosa del 23%. Pensare che il 2014, nel calendario delle Nazioni Unite, sarà l’anno delle «Piccole Isole in via di sviluppo», un club mondiale spesso dimenticato che comprende 52 mini-Stati, sparsi nei mari del mondo, che condividono l’identità insulare con i suoi problemi e le sue opportunità. Mentre le perle del Pacifico temono di finire letteralmente sott’acqua per il riscaldamento globale, le isole dell’oceano opposto temono di andare a fondo per il raffreddamento dell’economia. E’ una partita inedita quella che sta giocando in campo internazionale la selezione del Mar dei Caraibi, tradizionalmente più ricca rispetto agli isolani di altre spiagge. Di questi tempi il dottor Kenny Anthony, premier di Santa Lucia, e i suoi colleghi si presentano ai vertici dei Grandi con il cappello in mano. Vorrebbero accedere agli aiuti riservati dalla Banca Mondiale al gruppo dei Hipc (Paesi poveri molto indebitati). Un segnale di «autodeclassamento» che dà l’idea della gravità della crisi tra il Mar dei Sargassi e il continente americano. Economia e geopolitica marina da un oceano all’altro: mentre l’America trascura un po’ i suoi vicini andando a mettere il naso e le portaerei tra le isole contese del mare cinese, Pechino ricambia mandando i propri leader a esplorare le capitali in rosso dei Caraibi. La scorsa estate il presidente Xi ha fatto un tour (il primo di un capo di Stato cinese) nella grande «piscina» degli Stati Uniti. «Xi ha promesso investimenti per 3 miliardi nella regione — ha detto il primo ministro di Barbados Freundel Stuart —. Noi accogliamo volentieri tutto l’aiuto che ci viene offerto». I cinesi costruiscono stadi di cricket, rimettono a posto strade nel Paese del reggae, aprono porti talvolta minacciando i paradisi naturali. Ma la sorte dell’iguana della Giamaica e il destino delle foreste di mangrovie passano in secondo piano davanti ai morsi della crisi, agli spilloni voodoo di Christine Lagarde e del suo Fondo Monetario. Michele Farina