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 2013  dicembre 27 Venerdì calendario

TANGENTI, SCONTRI, MINISTRI LICENZIATI IL «RAIS» ERDOGAN ORA TREMA DAVVERO


«Cade un impero»: con queste parole Francis J. Ricciardone, ambasciatore Usa ad Ankara, ha ben colto il senso del tempesta giudiziaria che coinvolge non solo tre ministri del governo turco, ma anche Tayyp Erdogan personalmente.
Un’inchiesta scottante per tangenti milionarie ha infatti coinvolto il figlio di Erdogan, Bilal, che però non è stato incriminato e ha portato la settimana scorsa all’arresto di 24 personaggi di primo piano legati al regime, tra questi i figli del ministro degli Interni Baris Guler, del ministro dell’Econo - mia Zafer Caglayan e del ministro dell’Ambiente Bayaraktar. Sono stati anche arrestati personaggi legati personalmente a Erdogan: l’uomo d’affari iraniano Reza Zarrab, coinvolto in traffico di valuta assieme al ministro per i rapporti con l’Ue Egeman Bagis (che avrebbe ricevuto da lui cospicue mazzette) e l’amministratore di Halbank, Suleyman Aslan, nella cui casa sono stati trovati 4,5 milioni di dollari nascosti in scatole da scarpe.

POLIZIOTTI CACCIATI
La reazione di Erdogan è stata - al solito - rabbiosa e tracotante: ha accusato i magistrati e gli agenti di polizia che hanno condotto l’inchiesta di essere parte di «una cospirazione che si sviluppa con la scusa della corruzione agli ordini di interessi stranieri, in un contesto molto sporco». Poi è passato alle minacce: «Chi vuole creare una struttura parallela dentro lo Stato e si è infiltrato nelle nostre istituzioni, si accorgerà che penetreremo nella sua tana e la distruggeremo». Infine è passato ai fatti: ha licenziato in tronco il capo della polizia di Istanbul e una cinquantina di ufficiali di polizia che avevano condotto l’inchiesta e ha tolto al vice Procuratore di Istanbul il fascicolo giudiziario dell’in - chiesta. Ma tutto questo non gli è servito per assorbire il colpo, soprattutto dopo che il presidente della repubblica Abdullah Gul, suo avversario politico, ma leader, come lui, del suo stesso partito, l’Akp, ha chiesto a gran voce le dimissioni dei ministri coinvolti, ministri che invece Erdogan intendeva mantenere ai propri posti.
Il giorno di Natale, che ovviamente in Turchia non è festivo, Erdogan è stato quindi costretto a fare dimissionare tutti i ministri coinvolti e a procedere a un maxi rimpasto, sostituendo ben 10 ministri. Il suo problema principale infatti è che la “Mani Pulite in salsa ottomana” non è cavalcata solo dall’opposizione parlamentare (e dal presidente Gül), ma anche dal teologo Fatullah Gülen e dalla sua confraternita Hizmet, per anni fondamentale punto di riferimento di Erdogan stesso, a cui ha sempre portato gran parte del consenso riscosso nelle elezioni attraverso le mille moschee che controlla in Turchia e nel mondo e i suoi potenti media. Erdogan denuncia oggi una “cospirazione” perché è convinto, probabilmente a ragione, che i magistrati e i dirigenti della polizia che hanno dato vita all’inchiesta sulla corruzione siano legati alla confraternita di Gülen e agiscano su sua ispirazione. Sospetti avvalorati dalle parole di Gülen stesso che ha “maledetto”, pur senza citarlo, Erdogan per la decisione di licenziare i dirigenti di polizia che avevano operato gli arresti.

ISLAMISTI DIVISI
Tutto questo a quattro mesi dalle elezioni amministrative, in un contesto che vede ormai da mesi i vertici dell’Akp e dello stesso Stato fortemente dilaniati. Il presidente Gül e il teologo islamico Gülen, infatti, hanno duramente criticato sia la durezza con cui Erdogan ha represso il movimento di Gezi Park, così come i provvedimenti islamisti da lui imposti - repressione dell’uso degli alcoolici, separazione rigidissima di maschi e femmine nelle case dello studente - e Gülen (ma non Gül) ha anche criticato la politica antisraeliana di Erdogan. Sulle rive del Bosforo è dunque in atto uno scontro al calor bianco dentro il movimento islamista, che ha un risvolto sconcertante. Da 30 anni la Turchia è il paese più stabile, democratico e in sviluppo della sponda sud del Mediterraneo, tanto che in 10 anni il Pil è addirittura duplicato. Ma ora la probabile caduta rovinosa di Erdogan mette fine a quest’unica isola di stabilità nel mondo musulmano.