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 2013  dicembre 27 Venerdì calendario

UNA CLASSE CON BAMBINI DI TUTTE LE ETÀ NEL PAESE DOVE VIVE L’IDEA DI DON MILANI


Quando chiude il bar muore il paese. Vale lo stesso, anzi di più, per le scuole.
L’ultima fermata del treno è Ceres, a 50 chilometri da Torino. Dopo, in un territorio che è grande almeno tre volte quanto tutti i comprensori scolastici che lo circondano, non c’è più nulla, solo una corriera che parte al mattino e torna alla sera. Viene buio presto, tra queste montagne. Se non ci fosse quell’edificio di granito e ardesia piantato in mezzo alla piazza, dal quale entrano ed escono bambini vocianti e i loro genitori, la nota dominante sarebbe quella della desolazione, come spesso accade per questi borghi lontani.
Le Terre alte del Piemonte sono presepi viventi tra montagne e boschi che quasi sempre diventano sinonimo di abbandono, borghi fantasma che nessun programma di recupero potrà riportare in vita, privati come sono ormai dell’anima. Ala di Stura è un Comune di quella valle di Lanzo che è una specie di inganno geografico, perché comincia quasi ai piedi della cintura torinese ma finisce in alto, molto più in alto, dove a essere rarefatta non è solo l’aria ma anche la popolazione, e gli spazi. Ad Ala di Stura, quota 1.200 metri, ci si arriva percorrendo una provinciale che sembra tagliata nella roccia, con gallerie che somigliano a caverne. La strada finisce in piazza, davanti a una scuola primaria che fa parte dell’Istituto comprensivo Leonardo Murialdo, una specie di mosaico che raccoglie gli studenti che giungono da 12 comuni scomposti in un reticolo infinito di frazioni, e più si sale più le distanze tra un borgo e l’altro aumentano. «In altre parole, la scuola come io la vorrei non esisterà mai altro che in qualche minuscola parrocchietta di montagna oppure nel piccolo di una famiglia dove il babbo e la mamma fanno scuola ai loro figli». Don Milani la considerava una utopia civile. Ad Ala di Stura, la pluriclasse è una necessità.
«Un modo per tenere vivo il paese. Se non aiutiamo le nostre piccole scuole, i bimbi se ne vanno. E con loro se ne va il futuro». La maestra Maria Elena di cognome fa Maronero, che è quasi un segno particolare per riconoscere chi viene da questi luoghi. La sua pluriclasse è composta da cinque bimbi di prima, tre di seconda, quattro di quarta. L’aula è al secondo piano. In quella al pianterreno, molti ma non troppi anni fa, sui banchi c’era lei. «Ho insegnato “fuori”, poi sono tornata qui. Anche ai miei tempi di alunna eravamo di età mista. Qui non hai scelta se vuoi tenere viva la scuola. Già così abbiamo bambini che vengono da frazioni distanti 10-12 chilometri. Se dovessero scendere a valle, le distanze diventerebbero esagerate».
Cristina Fiorentin è una mamma «foresta» senza nostalgia della città. «Ma qui in montagna il lavoro è poco. Ormai, che l’adulto sia costretto a viaggiare è quasi scontato. Ma se cominciano a farlo anche i nostri figli, allora non c’è più ragione per restare, tanta vale spostarsi in valle». La famiglie restano perché c’è la scuola, che diventa ossigeno necessario alla sopravvivenza, il centro di tutto, vita sociale, feste, bisogno di partecipazione. «Senza scuola saremmo andati via molti anni fa» dicono tutti. Alcuni insegnanti sono stati allievi, altri hanno i figli in classe, tutti i genitori si danno fa fare.
Quando giunse qui da Torino, Vilma Maria Pont doveva restare per pochi mesi, il tempo di salire in graduatoria e salutare. Adesso, 18 anni dopo, è la preside dell’istituto, la persona che con la determinazione dei miti cerca di mandare avanti il progetto. «In realtà isolate come questa la pluriclasse c’è sempre stata e sarebbe il caso che continuasse ad esistere. Ma è una lotta che non va a migliorare. Dopo i tagli alla scuola del 2009 si rischia sempre di chiudere, ogni settembre è una scommessa».
Sono i numeri a imporre il modello della pluriclasse. Così i bambini di quinta si trovano in classe con quelli di prima, al tempo stesso sono alunni e anche guide dei più piccoli, in una mescolanza che non significa assenza di un preciso programma, critica che spesso veniva rivolta a don Milani. «Al contrario, ce ne sono cinque» spiega la maestra Margherita Martino. «I piccoli ne traggono grandi benefici. È importante seguirli anche a casa, ma spesso ci pensano loro ad aggiustarsi». Laura Maria Maronero, vicepreside, insegnante e mamma, racconta che la figlia ogni tanto torna a casa con domande sul sistema solare o di storia, tutte cose ascoltate in aula dai più grandi, assorbite. «I bambini sono collaborativi e svegli, lo spirito della pluriclasse è questo».
Il dibattito non è nuovo, da noi risale ai tempi del prete di Barbiana. Ma negli ultimi vent’anni le pluriclassi stanno uscendo dalla nicchia dello stato di necessità. L’Unesco ne ha promosso l’adozione nelle regioni in via di sviluppo, e diversi Paesi occidentali, Francia e Stati Uniti in primis, stanno cercando di integrare questo modello pedagogico nel loro sistema scolastico. Il modello è la Svizzera, dove la geografia ha imposto le sue regole. In alcuni cantoni di montagna quasi il 20% degli alunni sono in pluriclassi, il raggruppamento di bambini di età diverse è consuetudine, una maestra per tutti, dal primo all’ultimo anno di elementari.
La Svizzera è lontana da Ala di Stura, dalle nostre Terre alte. Ma a guardare i bimbi nelle aule con i pavimenti di legno, con i genitori che si affacciano alle porte sempre aperte, non viene in mente l’esigenza pratica che da noi è genesi della pluriclasse. «A pensarci bene, siamo solo una comunità che gira intorno al suo bene più prezioso» dice la preside. Una volta era il bar, adesso è la scuola.
Marco Imarisio