Michele Farina, Corriere della Sera 27/12/2013, 27 dicembre 2013
NUOVI TIRANNI, CLAN E RICCHEZZE LA MALEDIZIONE DELLA VIOLENZA ETNICA
Riek Machar contro Salva Kiir, l’ex vicepresidente di etnia Nuer che si ribella al presidente di etnia Dinka che l’ha licenziato. La radice della nuova guerra in Sud Sudan (migliaia di vittime e di sfollati negli scontri tra i due principali gruppi etnici) è una brutale sfida tra i clan che si contendono il potere nel più giovane Stato del mondo.
«Quando i politici usano la mobilitazione etnica per promuovere la loro agenda, la violenza può velocemente propagarsi come metastasi», ha scritto l’attore George Clooney in un appello alla comunità internazionale e ai due sfidanti di Juba. Da quelle parti Clooney s’è preso la malaria e il mal d’Africa, diventando un appassionato sostenitore dell’autodeterminazione per i 9 milioni di sud sudanesi. Gli occhi elettronici del suo «Satellite Sentinel Project» erano puntati sul confine con il Nord sui movimenti di truppe del regime di Khartoum che, dopo aver accettato a malincuore l’indipendenza dei vicini (costata 2 milioni di morti), ancora trama per destabilizzarla. Ma la leadership del Sud dimostra di non aver bisogno di aiuti esterni per spingersi sul precipizio. Clooney ha ragione a puntare il dito sulle agende personali dei capi coinvolti, gli stessi che ieri hanno lanciato timidi segnali di dialogo: a Juba sono volati i presidenti di Kenya e Etiopia per discutere con il presidente Kiir, mentre il rivale Machar pone come condizione per una tregua il rilascio di 10 suoi alleati. Ma la sfida personale tra due miopi politici non spiega perché la violenza inter-etnica sia ancora oggi così facile da scatenare nell’Africa del boom economico e della democrazia avanzante. Eppure Steven Pinker, nel suo monumentale libro sul «Declino della violenza», rileva come dal 1950 al 2003 le discriminazioni politiche ai danni di 337 minoranze etniche nel mondo siano calate dal 44% al 19% dei casi su un totale di 124 Paesi. E l’Africa non è stata l’unico teatro di infamie tra connazionali: il genocidio dei tutsi in Ruanda avveniva all’incirca negli anni in cui l’Europa assisteva ai massacri in Bosnia. Però poi è arrivato il terrore in Darfur, mentre il conflitto etnico ruandese si delocalizzava nel Congo. Anche Paesi relativamente stabili e prosperi (come la Costa d’Avorio) hanno visto in anni recenti degenerare lo scontro tra clan politici che hanno utilizzato «la mobilitazione etnica». Lo stesso presidente del Kenya chiamato a mediare in Sud Sudan, Uhuru Kenyatta, è accusato dal Tribunale penale dell’Aia (non nel suo Paese) di crimini contro l’umanità per gli squadroni della morte che hanno seminato violenza tra i Kikuyu, i Luo e i Kalenjin durante le elezioni del 2007 nella Rift Valley, la culla dell’umanità.
Kenyatta come Kiir, il presidente con il cappello da cowboy, o come Machar, l’eterno signore della guerra laureato in filosofia in Inghilterra, non hanno seguito le orme di Nelson Mandela sulla via dello Stato di diritto. È un’amara coincidenza che la morte del gigante sudafricano sia coincisa con l’esplosione di due crisi mortali nel cuore del continente. Nella Repubblica Centrafricana la guerra tra leader e gruppi militari si è incanalata e si è ingrossata lungo linee geografiche (Nord contro Sud) e religiose (musulmani e cristiani) innescando una catena di vendette tra comunità all’interno degli stessi quartieri. In Sud Sudan, che conta duecento gruppi etnici, lo scontro al vertice è «colato» alla base mobilitando in maniera caotica le due etnie principali. Ma come: proprio nel Paese più giovane del mondo, fino a ieri «storia di successo»? Nel suo libro «The J curve» del 2006 il geopolitologo Ian Bremmer dimostrava come proprio i Paesi che si staccano dall’autoritarismo vivano un periodo di maggiore instabilità prima di assestarsi sugli standard di libertà e apertura raggiunti «sulla carta». La mappa dell’Africa è cambiata sorprendentemente poco da quando fu disegnata dalle potenze coloniali meno di 150 anni fa, potenze che spesso hanno giocato e soffiato sulle differenze tribali per governare meglio. Molti osservatori considerano quel retaggio tra le cause dei conflitti di oggi. Ma il Nobel nigeriano Wole Soyinka, 79 anni, poeta e attivista considerato la «coscienza dell’Africa», ha parlato recentemente di una linea diretta che lega i tiranni di oggi (e le loro consorterie) agli africani che vendettero i propri fratelli ai negrieri occidentali. «I discendenti di quei collaborazionisti sono ancora tra noi: i problemi attuali del continente — dice Soyinka — dipendono in parte dalla nostra mentalità di dominio».
Michele Farina
@mfarina9