Antonio Ferrari, Corriere della Sera 27/12/2013, 27 dicembre 2013
TURCHIA, ORA IL REGNO DI ERDOGAN VACILLA
Da quando è arrivato al potere, oltre un decennio fa, il primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan non era mai stato costretto con le spalle al muro. Aveva reagito ad ogni attacco con asprezza, arroganza e abilità, coniugando una grinta feroce con il suo indubbio carisma. Stavolta ha dovuto cedere.
O meglio, per difendere il suo governo islamico-moderato, che in parlamento ha un’invidiabile maggioranza assoluta, dall’accusa d’essere il quartier generale di una devastante «tangentopoli», ha sostituito dieci dei suoi ministri in un colpo solo. Tre si sono dimessi spontaneamente (così dicono), perché i loro figli risultano inquisiti dalla magistratura per aver ottenuto licenze edilizie di favore, o per aver manovrato per farle assegnare ai loro protetti. Gli altri ministri sono stati allontanati — motu proprio — dal premier. Più che di un rimpasto, si tratta di una vera rivoluzione all’interno dell’esecutivo islamico-moderato, con conseguenze che è impossibile prevedere. Tutto questo mentre, nel Paese e in particolare a Istanbul, vi sono dure proteste, con scontri tra la polizia e i manifestanti. I quali chiedono una sola cosa: che Erdogan se ne vada a casa, anche perché circolano voci che coinvolgerebbero nella tangentopoli anche suo figlio, Bilal.
Il premier, come un toro furibondo, denuncia «complotti internazionali». Quegli stessi complotti che aveva citato, con reiterazione ossessiva, per giustificare la devastazione del parco di Gezi, e la conseguente brutale repressione delle manifestazioni di protesta. Il primo ministro, che non conosce il fascino discreto della diplomazia, adesso rischia grosso. La furia giustizialista può infatti squilibrare ancor più la compagine di governo. I nomi dei sostituti dicono poco sulla volontà riparatrice del premier. Colpisce però il siluramento di un ministro, criticatissimo dalla stampa ma non raggiunto per ora da alcun provvedimento giudiziario, che ha rappresentato l’ala filo-europea del governo. Egemen Bagis, co-fondatore del partito Akp, è infatti l’uomo al quale Erdogan, affidandogli gli Affari europei, e quindi il ruolo di negoziatore-principe per portare la Turchia nella Ue, aveva deciso di bilanciare l’eccessiva invadenza del ministro degli esteri Ahmet Davutoglu, alfiere di una politica filo-araba: descritta da molti come neo-ottomana. Adesso, in Turchia, di opzione europea o neo-ottomanesimo non parla più nessuno. Si parla solo di democrazia tradita.
E’ chiaro che il primo ministro dà l’impressione di colpire alla cieca, in quanto il pericolo che avverte è davvero grave per il suo esecutivo e per le sue ambizioni. Il suo avversario numero uno è infatti un altro islamico-moderato, il potente teologo-predicatore Fethullah Gülen, che vive in esilio negli Stati Uniti. Gülen, che è al vertice di un impero (scuole, università e ospedali in tutto il mondo), in passato era il primo alleato di Erdogan. Oggi gli insidia il primato, non tanto per il peso elettorale difficilmente quantificabile, quanto perché un indebolimento dell’Akp potrebbe consentire alla sinistra laica del Partito repubblicano del Popolo (Chp) di conquistare Istanbul alle elezioni amministrative di marzo. Se questo accadesse, si materializzerebbe la più dura sconfitta per il premier: che sogna di sedersi a Cankaya, la presidenza della Repubblica, magari con l’intenzione di restarci fino al 2023, quando si festeggeranno i cent’anni dalla rivoluzione di Mustafà Kemal Atatürk.
Erdogan sa bene che Gülen ha affiliati dappertutto, e in particolare nella magistratura e nella polizia. La rimozione di oltre 500 ufficiali, da parte del ministro dell’Interno dimissionario, ha scatenato i fedelissimi del predicatore. Il quale, dalla Pennsylvania, invoca la punizione divina: «Che Dio porti il fuoco nelle loro case, bruci le loro abitazioni, spezzi le loro famiglie». Brutta aria davvero, nella Turchia che sembrava sprizzare ottimismo. Ora è arrivata la paura, con la borsa che crolla e con la lira turca ai minimi storici.
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