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 2013  dicembre 27 Venerdì calendario

Biografia di Edith Piaf

Notizie tratte da: Édith Piaf, Au bal de la chance. La mia vita, Castelvecchi 2011, pp. 189, 16 euro.

Lapide Sopra l’ingresso dell’edificio al numero 72 di Rue de Belleville, a Parigi, una lapide di marmo con su scritto: «Sui gradini di questa casa il 19 dicembre 1915 nacque nella più grande indigenza Édith Piaf, la cui voce ha, poi, sconvolto il mondo».

Édith Vero nome di Édith Piaf, Édith Giovanna Gassion. Il nome Édith, in onore di Edith Cavell, un’infermiera inglese che viveva in Belgio, fucilata dai tedeschi il 12 ottobre 1915 per aver organizzato l’evasione di numerosi alleati feriti che si trovavano nel suo ospedale.

Genitori Édith, figlia della cantante di strada Anita Maillard detta Line Marsa, e dell’acrobata contorsionista Louis Gassion, uomo molto bello che ha grande fortuna con le donne.

Latte e vino rosso Louis Gassion, tornato dal fronte per la nascita di Édith, qualche giorno dopo riparte per la guerra (tornerà solo nel 1917, quando otterrà un nuovo permesso). La figlia comincia presto ad essere un peso per la madre che, non avendo altra risorsa che il canto, non sa che farsene di quel fardello e per essere più libera affida la bambina alla nonna Aïcha, un’alcolista che abita in una catapecchia in Rue Rébeval. Quando Louis Gassion ritorna a Parigi dopo due anni di assenza, scopre con sgomento che i biberon della figlia sono allungati col vino rosso. La scusa: fortifica i bambini e uccide i microbi. Inoltre, la figlioletta è straordinariamente magra e sporca: non solo viene mandata a piedi scalzi sia d’estate che d’inverno, ma è anche coperta di parassiti e di croste.

Bordello Louis Gassion decide di affidare Edith alla propria madre, Louise, che abita a Bernay nel dipartimento dell’Eure. Proveniente
da una famiglia numerosa (aveva più di venti fratelli), Louise,
che ha avuto quattordici figli, lavora come cuoca in un bordello tenuto
da una sua cugina. Le prostitute della casa sono entusiaste dell’arrivo della piccola, sulla quale possono riversare il proprio istinto materno troppo spesso frustrato. E per Édith è un periodo felice. Tutti si occupano di lei e la coccolano. Una foto dell’epoca mostra una bella bambina con le guance piene e lo sguardo immenso, che posa come una modella con un bel fiocco tra i capelli.

Benda nera A causa di una cheratite trascurata, Édith a un certo punto sembra quasi aver perso la vista. Un dottore, cliente abituale della casa di Rue Saint-Michel, le prescrive un collirio e le fa indossare una benda nera, che dovrà portare per diverse settimane. La porterà per mesi. «Qualche settimana dopo, il trattamento del dottore libertino dà i suoi frutti ed Édith può finalmente togliere la benda. Ci vede! Tutti, o meglio tutte, gridano al miracolo e lodano santa Teresa».

Alcol Per otto anni visse col padre un’esistenza da bohémien, avventurosa
e miserabile. I due non potevano mangiare ogni volta che avevano fame,
ma avevano sempre a disposizione vino e cattivo cognac per riscaldarsi
quando il freddo diventava troppo intenso.

Baci Il padre la baciò solo due volte: «La prima volta fu a Le Havre. Avevo nove anni e dovevo esibirmi in un piccolo cinema. Avevo un fortissimo raffreddore, ero rauca e avevo la febbre, sarei dovuta restare a letto per tutto il giorno. Mio padre aveva già avvertito che era meglio non contare sulla mia presenza quando, verso sera, gli annunciai che sarei andata a cantare, malata o no. Si oppose dicendo che era una follia, che non voleva avere la mia morte sulla coscienza. Dopo una lunga discussione la mia volontà ebbe la meglio, e d’altronde avevo un argomento imbattibile: il compenso. Quando se ne ha davvero bisogno, vale sempre la pena fare uno sforzo per ottenere un po’ di soldi, per quanto pochi possano essere. Mi esibii e quando scesi dal palco papà mi ricompensò con due grossi baci sulle guance, che mi lasciarono stupita ed estasiata. Non era mai stato tanto fiero di sua figlia».

Caserme A un certo punto Édith, «avida di libertà», si allontana dal padre e canta per strada o nei cortili dei palazzi in compagnia della sua amica Momone. Gli inverni per lei sono durissimi perché le finestre delle case restano chiuse, e cantare nei cortili è inutile. Restanosolo le strade, a patto però di evitare i poliziotti, che non amano gli assembramenti, disperdono il pubblico e usano la forza per far sgombrare i saltimbanchi. Per aggirare il problema, a Édith viene l’idea di andare a cantare nelle caserme. Ogni volta bisogna chiedere l’autorizzazione al colonnello, ma quando la ottiene il pubblico è assicurato e la sala dove ha luogo lo spettacolo, cantina o refettorio che sia, è riscaldata.

Marcelle Nella primavera del 1932, a diciassette anni, va a vivere con un giovane fattorino, Louis Dupont, dal quale avrà presto una figlia di nome Marcelle.

Corredino «La prima visita che ricevetti fu quella di mio padre che, avendo saputo di essere diventato nonno, aveva dimenticato il risentimento ed era corso al capezzale della giovane mamma, tutto emozionato. Rimase immobile per due minuti, senza riuscire a dire una parola, e quando mi baciò aveva le lacrime agli occhi. Il giorno dopo la mia “matrigna” del momento mi regalò un corredino. Non era lussuoso, ma era comunque un corredino. Ho scritto “del momento” e non si tratta di una precisazione inutile. Mio padre era un bell’uomo, ed era abbastanza incostante – o, se lo
preferite, un terribile donnaiolo – e non restava mai solo molto a lungo».

Funerale La paga di P’tit Louis non basta a soddisfare i bisogni di tre bocche da sfamare, perciò Édith torna a cantare sulla strada con la neonata in braccio. Dopo meno di diciotto mesi la piccola Cécelle muore per una meningite fulminante. Già minato dalle infedeltà di Édith, il rapporto con P’tit Louis non sopravvive alla tragedia e il ragazzo sparisce per non tornare mai più. Senza un soldo per pagare le spese del funerale, Édith è costretta a prostituirsi per poter seppellire la figlioletta.

Leplée A venti anni, mentre canta per strada a Pigalle, la gonnellina sudicia e le scarpe di almeno due misure più grandi della sua, Édith viene avvicinata da un uomo distinto che le dice: «Sei forse pazza? Ti rovinerai la voce». Lei risponde: «Devo pur mangiare». E lui: «Sono Louis Leplée e dirigo il Gerny’s. Vieni lunedì alle quattro. Mi farai sentire tutte le tue canzoni… e vedremo che cosa possiamo fare con te».

Passerotto Qualche giorno dopo Leplée la ingaggia per quaranta franchi al giorno ma prima di farla debuttare nel suo cabaret le trova un nome d’arte: «Sei un vero passerotto di Parigi, e il nome che ti starebbe bene è proprio moineau, passerotto. Purtroppo, però, la Môme Moineau esiste già. Dobbiamo trovarti qualcos’altro… Passerotto in argot si dice piaf. È deciso! Sarai la Môme Piaf».

Mille franchi Dopo qualche giorno, Leplée la autorizzò a fare la questua. «Finita l’esibizione, giravo tra i tavoli. I clienti erano generosi e una sera uno di loro, il figlio del re Fuad d’Egitto, mi regalò una banconota da mille franchi. Se non era la prima che vedevo, di certo era la prima che possedevo».

Gala «Fu Leplée a procurarmi la mia prima partecipazione a un gala: accadde al Circo Medrano il 17 febbraio 1936, la data mi è rimasta impressa. La serata era in favore della vedova del grande clown Antonet, morto qualche giorno prima. La copertina del programma era stata disegnata da Paul Colin; lo spettacolo si apriva con un componimento di Marcel Achard scritto per l’occasione e prevedeva la partecipazione di tutte le stelle del momento, dal teatro al cinema, dal circo allo sport. Ero decisamente orgogliosa di trovarmi tra loro e di vedere che il mio nome figurava nel programma tra quello di Charles Pélissier e quello di Harry
Pilcer (in ordine alfabetico), scritto con lo stesso carattere di quello dei
miei «colleghi» Maurice Chevalier, Mistinguett, Préjean, Fernandel e
Marie Dubas».

Delitto 1 Il 6 aprile 1936, Leplée fu trovato ammazzato con un colpo di pistola nell’occhio. «Non ero sospettata di aver ucciso Leplée, ma si dava per scontato che fossi complice dei suoi assassini. Verso sera passai al commissario Guillaume in persona. Gli bastò appena un’oretta per capire che non sapevo niente e per decidere di rimandarmi a casa. In ogni caso, ero pregata, si fa per dire, di tenermi a disposizione degli inquirenti».

Delitto 2 Attorno al delitto di Leplée, i giornali costruirono «un vero e proprio romanzo d’appendice, nel quale io ero un’eroina, senza dubbio pittoresca, ma certamente antipatica. Non lo scrivevano mai con chiarezza, ma lasciavano intendere che avrei potuto essere la complice degli assassini, se non addirittura la mandante del crimine. Non mi risparmiarono nulla. Avevo tanto sognato di vedere un giorno il mio nome sulle pagine di un giornale: eccomi servita. Se avessi avuto abbastanza denaro sarei scappata dall’altra parte del mondo. Al contrario, le mie scarse finanze si esaurirono in fretta, e poiché in qualche modo bisognava andare avanti, mi rassegnai a ricominciare a esibirmi. Il Gerny’s era chiuso e non c’era speranza che riaprisse, ma le proposte non mancavano. Speculando sulla curiosità del pubblico e sapendo che, d’altro canto, non potevo avere grosse pretese finanziarie, furono numerosi i direttori di cabaret che mi fecero delle offerte. Non dovevo fare altro che scegliere».

Spaghetti L’impresario Lombroso le procurò un contratto a Nizza, «dove cantavo alla Boîte de Vitesse, un cabaret che si trovava nel seminterrato del Maxim’s, diretto da Skarjinski. Mi ci trovavo bene, i clienti non sapevano molto del caso Leplée, al quale i giornali della costa erano poco interessati. Tuttavia la mia situazione economica non era delle migliori. La
sera, dopo lo spettacolo, andavo a mangiare un boccone al Nègre, in
Passage Émile-Négrin, e spesso mi dovevo accontentare di un piatto di
spaghetti; una bistecca sarebbe costata troppo».

Raymond Asso Tornata a Parigi «scoraggiata, rassegnata, sconfitta, insicura di tutto», Édith si affidò all’impresario Raymond Asso che per prima cosa cercò di ridarle fiducia: «Ero stata calunniata, diffamata, trascinata nel fango: e allora? Non ero certo la prima. Dovevo tirare fuori la volontà, tendere i muscoli e combattere. Avremmo combattuto. E Raymond Asso lottò per me con una convinzione e una tenacia che meritarono tutta la mia ammirazione. Era convinto, e a ragione, che una cantante non potesse fare carriera con il cabaret, e che soltanto col
varietà, davanti al grande pubblico e a contatto diretto con esso, avrebbe
potuto mettere davvero alla prova il proprio talento, rendersi conto
dei propri errori e difetti e in questo modo fare progressi. Cantavo al
cabaret, avevo ricominciato a passare alla radio – dove avevo un potente
alleato nella persona di J.-N. Canetti, direttore artistico di Radio-
Cité – dovevo assolutamente esibirmi all’ABC».

Stampa «La stampa ricominciò a parlare di me, ma questa volta con toni lusinghieri. Voglio riportare qui le parole che mi dedicò il compianto, e già
troppo dimenticato, Maurice Verne ne L’Intransigeant: La Môme Piaf è l’angelo triste e impetuoso del ballo popolare. In lei, tutto proviene dai sobborghi, tranne il modo di fare che ricorda quello di una Claudine del 1900. O, Colette! Ecco miracolosamente resuscitati i capelli corti e vaporosi della tua eroina, il colletto bianco e il fiocco, il vestito
nero simile a una divisa da scolaretta. La Môme Piaf è piena di talento,
la sua voce sale, diventando metallica, come di latta, all’interno del
cortile immaginario dove lavora la cantante di strada. La Môme Piaf –
che il Signore la conservi! – non è ancora diventata letteraria, ma le servono delle canzoni che le si addicano, il realismo quotidiano delle parti dellaVillette, che sfrigoli nella fuliggine dei comignoli delle fabbriche e risuoni delle melodie rubate alla radio del bistrot».

La Vie en rose 1 «Un bel pomeriggio del maggio 1945 ero seduta davanti a un bicchiere di porto in un cabaret degli Champs-Élysées, con la mia amica Marianne Michel, appena arrivata da Marsiglia, il cui debutto a Parigi era stato molto promettente. Stava cercando la canzone adatta a consacrarla. “Perché non me ne scrivi una tu?”, mi chiese. Avevo già scritto la musica di La Vie en rose. Gliela canticchiai e la melodia le piacque. Mi chiese di finire la canzone, che ancora non aveva
né testo né titolo. “Va bene!”, esclamai. “Lo faccio subito”.
A queste parole, prendo la penna e scrivo i primi due versi sul tovagliolino
di carta: Quand il me prend dans ses bras, Je vois les choses en rose…
(Quando mi prende fra le braccia, / Le cose mi sembrano rosa…)
Marianne fece una smorfia. “Ti piace quel punto, dove dici “le cose”?
Che ne pensi di “la vita”?”. “Buona idea! La chiamerò La Vie en rose… Il titolo sarà tuo”. E correggo: Quand il me prend dans ses bras,
Je vois la vie en rose… (Quando mi prende fra le braccia, / La vita mi sembra rosa…)».

La Vie en rose 2 «Lanciata da Marianne Michel, La Vie en rose è diventato un successo mondiale. Tradotta in una dozzina di lingue, tra cui il giapponese, è stata oggetto di innumerevoli incisioni, anche da parte di artisti del calibro di Bing Crosby e Louis Armstrong, e il disco ha venduto la straordinaria cifra di tre milioni di copie. Negli Stati Uniti è famosa proprio come in Francia, e ogni volta che mi esibisco a New York il pubblico me la chiede, la gente la canticchia per strada. A Broadway c’è anche un nightclub che si chiama La Vie en Rose, probabilmente l’unico al mondo ad avere il titolo di una canzone francese sull’insegna».

Yves Montand «La prima volta che ho ascoltato Yves Montand è stata al Moulin Rouge. Ero stata scritturata per due settimane e la direzione del celebre teatro di Place Blanche mi aveva permesso di scegliere io stessa quali artisti si sarebbero esibiti nel mio spettacolo, subito prima dell’intervallo. All’inizio pensai all’estroso Roger Dann, che in quel periodo si divideva tra il canto e l’operetta. Mi proposero Yves Montand. L’avevo conosciuto a Marsiglia qualche anno prima, al tempo in cui il compianto Émile Audiffred guidava i suoi primi passi nella professione, e avevo sentito molto parlare di lui. Era in voga in tutto il sud e, ogni volta che si esibiva all’Alcazar di Marsiglia, il decano dei teatri di varietà francesi – eretto nel 1852 – faceva il pienone. Il suo debutto parigino all’ABC nel 1944, invece, aveva sfiorato il disastro. Era entrato in scena in preda al panico, con indosso un abito a quadri abbastanza eccentrico.
Dalle gallerie qualche simpaticone aveva gridato: “Gagà!”, e l’intera
sala, piena di ammiratori di Dassary, che era la stella della serata, era
scoppiata a ridere rendendo ancora più arduo il compito del povero
Montand. La sua dizione, ancora spigolosa, l’accento marsigliese, con
le «o» eccessivamente aperte che si notavano soprattutto nella parola
armonica, ricorrente nelle sue canzoni, e il gesticolare eccessivo non
l’avevano affatto aiutato, e quella prima serata non si era conclusa in
modo molto favorevole. Sapevo bene tutto questo, ma sapevo anche
che Montand aveva imparato qualcosa da quell’esperienza: il giorno
seguente aveva lasciato a casa l’orrendo vestito, si era presentato in
pantaloni marroni e camicia, con il collo aperto sul petto, e il successo
non aveva tardato ad arrivare. Si poteva fare affidamento su di lui a
priori. Quando un artista dimostra la volontà di correggere i propri difetti
non appena se ne rende conto, se “sa aggiustare il tiro” quando
scopre i propri errori, si può scommettere su un suo successo, prima o
poi. Di certo non resterà indietro».

America 1 Nel 1946 Édith Piaf fece una tournee negli Stati Uniti: «Il presentatore annunciava Édith Piaf e un brivido correva per la sala, [...]Piaf voleva dire Parigi, la “gay Parì”! La parigina delle riviste di lusso, pettinata da Antonio, truccata da un altro e con un abito da sera da duecentocinquantamila franchi! E poi comparivo io, col mio vestitino nero. Che scena! Ma non finisce qui. Non solo non ero in grado di offrire agli americani l’immagine della parigina che si aspettavano, il colmo della delusione arrivava con le mie canzoni, che non rispondevano affatto al loro gusto. Il mio repertorio, da L’Accordéoniste a Où sont-ils, tous mes copains?, era troppo triste. Abituati alle melodie smielate dove amore fa rima con cuore e carezza con tenerezza, di fronte ai miei testi puntavano i piedi. Una reazione che mi sorprese e mi rattristò, ma che compresi in seguito, dopo averli conosciuti meglio. L’americano medio conduce una vita spossante, ma l’accetta. Però, portati a termine tutti i suoi doveri quotidiani, vuole distendersi, rilassarsi. Non finge che le brutture della vita non esistano, anzi, ha a che fare con loro tutto il giorno. Ma quando scende la sera vuole dimenticarle. È romantico, per natura e per necessità. Convinto di aver lasciato le preoccupazioni al guardaroba insieme al cappotto, non amava essere costretto ad ascoltare quella francesina che gli ricordava che il mondo è pieno di gente con un sacco di buoni motivi per essere triste»

America 2 Édith, scoraggiata, voleva tornare a Parigi. Ma il critico teatrale Virgil Thompson, che non scriveva quasi mai sugli artisti del varietà, le dedicò «un articolo di due colonne sulla prima pagina di uno dei più importanti quotidiani di New York, che fu per me il “doping” di cui avevo bisogno. [...] In sostanza, c’era scritto che se il pubblico americano mi avesse permesso di rialzarmi da quella sconfitta immeritata, avrebbe scoperto la propria incompetenza e stupidità. Con l’articolo nel portafoglio Clifford Fisher, il mio agente americano, se ne andò a parlare con i direttori del Versailles, uno dei cabaret più eleganti di Manhattan. E riuscì a convincerli a darmi una chance. “Quando la gente si sarà abituata a quel vestitino nero”, disse loro, “quando capiranno che non tutte le parigine vanno in giro con cappelli coperti di piume o agghindate con abiti con lo strascico, faranno la fila per venire a sentirla. E se ci doveste rimettere, vi risarcirò di tasca mia”. Clifford Fisher, per sua fortuna, non fu costretto a colmare i debiti del Versailles. Il mio inglese migliorava, avevo eliminato gli interventi inopportuni del presentatore e il pubblico, che ormai era ben informato, non si aspettava più l’apparizione di una modella, ma di una cantante: non c’era più spazio per i malintesi. Uscivo di scena accompagnata da lunghe ovazioni e, finito il primo ingaggio di otto giorni, restai al Versailles per dodici settimane consecutive».

America 3 «Oggi le mie canzoni sono conosciute negli Stati Uniti come in Francia. I giornalai di Broadway fischiettano Hymne à l’amour e La Vie en rose, i fan mi fermano per strada per farsi fare l’autografo da «Miss Idìss».
Le Petit Homme ha conquistato l’America grazie a uno splendido adattamento di Rick French, come decine di altre mie canzoni, e una fredda mattina del primo giorno dell’anno ho cantato L’Accordéoniste davanti alla Statua della Libertà, su richiesta degli studenti della Columbia».

America 4 Il giornalista Nerin E. Gun il giorno dopo il debutto al Versailles: «Ciò che colpisce, è il silenzio che cala quando viene annunciata Édith Piaf. Gli americani accettano di rado di tacere durante un’esibizione, e ancora meno di smettere di ordinare da bere. Eppure, il servizio si interrompe e la gente ascolta con attenzione. Édith fa la sua comparsa, minuscola, avvolta da un abito nero di taffetà. Il suo inglese è
comprensibile e divertente. Qualche gridolino di ammirazione si leva
di tanto in tanto, ad ogni canzone qualcuno chiede il bis, delle ragazze
entusiaste salgono sui tavoli e alla fine dello spettacolo segue un lungo
applauso, nella speranza che Édith Piaf canti ancora una volta».

America 5 Analizzando le ragioni del successo della Piaf, nello stesso articolo Nerin E. Gun riportò la frase del suo vicino di tavolo, un politico americano. «Finora dalla Francia sono arrivate solo dive sofisticate che ci hanno mostrato le immagini dell’allegra vita parigina per vendere il loro sex appeal. Édith Piaf è tutta un’altra cosa. Una grande artista, la cui voce
arriva alle viscere, ma anche una ragazzina pallida, che ha l’aria di una
che ha patito la fame, ha avuto un’infanzia infelice e ha sempre un po’
paura. È come l’incarnazione della nuova generazione europea, quella
che siamo chiamati ad aiutare…».

Marlene 1 Tra le ammiratrici di Edith Piaf, anche Marlene Dietrich, che diventò una sua cara amica.

Marlene 2 Un giorno, mentre si spogliava nel camerino del Versailles, era assieme a Marlene Dietrich. «Qualcuno bussò alla porta. Lei andò ad aprire e infilando la testa nello spiraglio disse: “I signori desiderano? Sono la segretaria della signora Édith Piaf…”. Gli altri la osservarono stupefatti, chiedendosi se non fosse un sogno. Lo scherzo proseguì a lungo e finì solo quando Marlene fu inchiodata da un signore che, in tono calmo e cortese, e senza ridere, le rispose: “E chi è l’autista della signora Piaf, Maurice Chevalier?”».

Chaplin 1 «A Hollywood ebbi la fortuna di conoscere anche Charlie Chaplin. Non in uno studio, ma al cabaret. Era venuto a sentirmi cantare e fu uno dei momenti più belli della mia vita. Non che quella sera fosse successo alcunché di eccezionale, ma solo perché cantare davanti a Charlie Chaplin era la realizzazione di uno di quei sogni indefiniti che si portano dentro per anni senza rendersene conto, e che quando all’improvviso si realizzano provocano una gioia incredibile. Quando vennero a dirmi che Chaplin, che a quanto si diceva usciva pochissimo e non frequentava i nightclub, si trovava in sala e vicinissimo al palco, compresi che quella sera avrei ottenuto la consacrazione che, forse inconsciamente, desideravo da sempre!».

Chaplin 2 «Dopo lo spettacolo abbiamo chiacchierato. Ho esagerato; in realtà fu solo lui a parlare. Mi disse che l’avevo commosso nel profondo e che aveva pianto, cosa che non gli succedeva spesso ascoltando una cantante. Un complimento magnifico, vero? Il più bello che potessi sperare. Ebbene, lo incassai senza neanche riuscire a spiegare quanto fosse prezioso per me, essendone l’autore un uomo come Chaplin. Non feci una
gran figura. Arrossii, e per tutta risposta balbettai non so bene cosa.
Il grande artista se ne andò e io ero furiosa con me stessa. Che stupida!
Charlie Chaplin, un uomo che ammiravo da sempre, un vero e proprio
genio, mi aveva fatto dei complimenti che mi avevano riempita di
orgoglio e di gioia, e io non ero riuscita a trovare le parole per esprimere
la mia gratitudine. Perciò immaginate lo stupore quando, il giorno dopo, ricevetti la sua telefonata. Mi invitava ad andarlo a trovare nella sua villa di Beverly Hills. Andai da lui e passai delle ore indimenticabili. C’era anche qualcuno dei suoi amici intimi, ma io avevo occhi solo per lui. Charlie è l’uomo più semplice e dalla conversazione più accattivante che abbia mai conosciuto. Parla con voce dolce e non alza mai il tono, i suoi gesti sono misurati e sembra quasi timido. Dopo avermi messa a mio agio raccontandomi che anche lui, molto prima di pensare al cinema, aveva debuttato nel varietà con la troupe comica di Fred Karno, parlammo a lungo della Francia, che ama molto. “E non solo perché i francesi hanno sempre compreso i miei film meglio degli americani”, aggiunse ridendo.
“Amo la Francia perché è la patria della dolcezza e della libertà”.
Poi suonò alcune delle sue composizioni al violino, dimostrando un
vero talento musicale. Me ne andai felice di averlo conosciuto e ancora
di più per aver scoperto che era proprio come l’avevo immaginato attraverso i suoi film».

Eisenhower La Piaf fu invitata al tavolo del generale Eisenhower pochi mesi prima che venisse eletto Presidente degli Stati Uniti. «Il generale mi chiese di fargli ascoltare la versione originale francese di Autumn Leaves, cioè Les Feuilles mortes, e abbiamo passato la serata cantando vecchie canzoni francesi. “La conosce quella? E quell’altra?”».

Matrimonio Il 29 settembre 1952, diventò la moglie del compositore Jacques Pills: «Avremmo voluto sposarci in Francia, ma i documenti non erano pronti ed entrambi avevamo un contratto che ci costringeva ad andare negli Stati Uniti. La cerimonia ebbe luogo nella piccola chiesa francese di New York, dove un prete americano, di origine italiana, benedì la nostra unione. La mia testimone fu Marlene Dietrich, che mi aveva vestita dalla testa ai piedi, e ad accompagnarmi all’altare fu Louis Barrier, il mio impresario e amico da più di tredici anni. Gli amici avevano organizzato due ricevimenti in nostro onore, uno al Versailles e l’altro al Pavillon, il più grande ristorante francese a New York. Non ci fu tempo per il viaggio di nozze: quella sera stessa dovevamo esibirci entrambi, Pills al La Vie en Rose e io al Versailles.

Quattro anni Il matrimonio con Jacques Pills durò quattro anni.

Borghesia «[...] non posso dire di non aver assorbito niente dalla borghesia. Sono freddolosa in modo eccessivo e preferisco che il riscaldamento, che accendo fin da quando cominciano a cadere le prime foglie, sia sempre al massimo, e che le finestre rimangano chiuse. Le quinte dei teatri sono già abbastanza piene di correnti d’aria.
Un’altra mania borghese: il lavoro a maglia. È la mia passione. Lo faccio
in continuazione. Sto sempre lavorando a qualche maglione. I miei
amici mi prendono in giro dicendo che non ne finisco neanche uno. È
possibile. Ma resto una delle migliori clienti dei venditori di lana.
Odio la tirannia degli orari. La mia giornata comincia nel tardo pomeriggio. Apro gli occhi alle quattro e solo verso sera comincio a sentirmi davvero sveglia. Se devo lavorare, prima di andare in teatro sgranocchio qualcosa, ma il pasto vero e proprio lo consumo solo dopo lo spettacolo, in piena notte, nella mia cucina con i soliti vecchi amici. Dopo il caffè, che adoro, ci sediamo in salotto. Suoniamo un po’ di musica, cantiamo, chiacchieriamo. Attimi di distensione. Si scherza, si ride. Mi piacciono gli scherzi, anche quelli un po’ cattivi. Pur essendo allegra per natura, non ho avuto un’infanzia facile, perciò cerco di recuperare. A volte si lavora anche. I compositori mi sottopongono le loro ultime creazioni, io provo le canzoni nuove, ne scarabocchio altre sul primo pezzo di carta che
trovo. Tutto questo va avanti fino al mattino. Chi non regge questi ritmi, e
non sono in pochi, se ne va di nascosto o dorme su qualche poltrona».

Vanità «Sono vanitosa? Certo. In casa indosso volentieri un maglione e dei pantaloni di flanella, ma mi piace farmi bella, passare qualche ora nelle boutique dei sarti di alta moda e, malgrado non li indossi quasi mai, ho una passione smodata per i cappelli, ne ho una ricca collezione. Il mio costume di scena è sempre lo stesso. L’ho adottato in occasione della prima esibizione al Bobino e, pur essendo stato rifatto molte volte, non è cambiato di una virgola. Non voglio che il mio aspetto distragga
gli spettatori. Qualche volta, per alcune canzoni, mi è capitato di tradire l’abito nero, la mia uniforme. Ad esempio, ho indossato un vestito di velluto nero con la gonna lunga per cantare Le Prisonnier de la tour»

Morte «Dato che credo in Dio non ho paura della morte».