Enzo D’Antona, la Repubblica 27/12/2013, 27 dicembre 2013
IL MEDICO DELLE FAVOLE
Nella seconda metà dell’Ottocento la filatrice cieca Rosa Brusca cominciò – omericamente – la sua narrazione. Con voce lieve raccontò storie di decapitazioni, di principi assassini e reginelle resuscitate, di rituali terribili in cui il lieto fine era manifestamente posticcio. A lei si aggiunse in seguito Agatuzza Messia, di professione nutrice, che parlò di eroine scaltre e ribelli. E poi la criàta–servetta Elisabetta Sanfratello che iniziò a ricordare spietate storie contadine. Vennero anche Maria Curatolo, Francesca Leto e Rosa Amari con il demone Malacarne. E tante altre, a formare un unico grande coro narrativo. Mentre in Europa si dispiegava lo stendardo delle donne scrittrici da George Eliot a George Sand, le popolane siciliane attingevano alla loro tradizione orale – del resto non sapevano né leggere né scrivere – per raccontare e codificare i cunti. Un impasto di tragedia greca, saghe normanne e Mille e una notte. Il cui risultato finale fu un realismo fatato, quasi pre-verista. Fiabe sì, dunque, ma fino a un certo punto.
L’epicentro è il quartiere del Borgo a Palermo, un rione che ancora adesso mantiene una burbera identità popolare e confini ben precisi. Le donne, e poi le figlie e le madri e talvolta persino i nonni e i mariti, pescano nella memoria per alimentare l’ingordigia etnografica del loro medico curante. Un signore che se ne va in giro con il suo calesse, la borsa da chirurgo e un taccuino zeppo di appunti. E che risponde al nome di Giuseppe Pitrè.
Il personaggio è già tutto un programma. Le foto ci restituiscono l’immagine di un borghese inquieto, con barba e viso affilato, sempre con le scarpe impolverate dal gran camminare su e giù dalla Marina al Papireto o nei vicoli di Ballarò e dell’Albergheria. Pitrè è considerato oggi uno dei maggiori folcloristi europei, ma ha dovuto aspettare quasi un secolo e mezzo prima che questa qualità gli fosse riconosciuta dai lettori fuori dalla Sicilia. I contemporanei all’inizio lo snobbavano un po’. Era nato proprio al Borgo da una famiglia povera. Il padre, marinaio sulle rotte transoceaniche, era morto di febbre gialla a New Orleans. Nel 1860, a 19 anni, Pitrè partecipa alla guerra garibaldina e l’anno dopo si iscrive a medicina. E qui comincia la sua avventura alla ricerca delle tradizioni popolari, un’avventura ricca e lunga fatta di parole, segni, oggetti e simboli raccolti in parecchi volumi e in un museo che oggi porta il suo nome, e che non si sarebbe interrotta nemmeno con la nomina a senatore del Regno nel dicembre del 1914, sedici mesi prima della morte.
Dunque Pitrè vagabonda per la città, entra in alcune case borghesi e in molti catoi, e dopo la visita vuole essere ricompensato con le storie. Annota parola per parola con ogni variante linguistica e segna anche il nome del narrante. Prima aneddoti e proverbi. Poi nenie, filastrocche e canti popolari. Poi ancora formule contro il malocchio, scongiuri, scaramanzie, superstizioni. E infine i cunti, che arrivano allo strabiliante numero di trecento. La raccolta, in lingua siciliana, vede la luce nel 1875 con il titolo Fiabe, novelle e tradizioni popolari di Sicilia ed è adesso riproposta dall’editore Donzelli in entrambe le versioni – siciliana e traduzione italiana – con le suggestive illustrazioni di Fabian Negrin e con il titolo Il pozzo delle meraviglie. È il più ricco repertorio mai pubblicato in Europa. I fratelli Grimm nella versione definitiva dei Kinder-und Hausmärchen ne avevano raccolte 200, Andersen ne ha scritte 156. E Calvino, tra le 200 Fiabe italiane scelte dalle diverse tradizioni regionali, ne ha selezionate ben 40 dello stesso Pitrè, etichettandole come «l’optimum dell’arte di raccontare a voce». Proprio Calvino giudicò la Ninetta del cunto Dattero-beldattero, sorella negletta che conquista il principe a dispetto delle sorellastre, «la più colorata e mediterranea » di tutte le Cenerentole mai raccontate.
La doppia prefazione-introduzione al Pozzo delle meraviglie, di Bianca Lazzaro e del grande studioso della fiaba Jack Zipes, rende giustizia a Pitrè e alle sue narratrici analfabete capaci di raccontare gli incantesimi come nessuno prima era riuscito a fare. Siamo in presenza qui di una summa di saperi popo-lari, di luoghi dove spesso si sente il profumo dei genoardi, i giardini arabo-normanni, e ogni tanto la puzza di zolfo con il diavolo Maometto amico di Sgraffagnino e Belzebù. Qui basta ovviamente mangiare un fico dalla pianta sbagliata per trasformarsi in un mostro come nelle storie di Sherazade. Basta guardare una ragazza per poi scoprire che è una vecchia Mammadraga sotto mentite spoglie. I nomi dei potenti sono reminiscenze di chissà cosa: un re si chiama Cicerone, una regina Trebisonda. E le Rosine, le Angeliche, le Rosmarine e le Ninette per uscire dalla subalternità e guadagnarsi un posto al sole ingaggiano battaglie epiche: ottengono, vincendole, quello che le loro narratrici non riusciranno mai ad avere. «La felicità – scrive Zipes – era una finzione. Era un’aspirazione destinata a rimanere irrealizzata nella vita della maggior parte dei narratori e di chi li ascoltava. Ma le storie erano di per sé una forma di realizzazione ». Giustissimo. E tutto ciò risulta più evidente perché l’unica mediazione, l’unico filtro attraverso cui queste storie ci arrivano, è l’etnografia. La letteratura, filtro dei Grimm e di tanti altri, da Perrault a Emma Perodi, lo avrebbe impedito.
Gli archetipi ci sono tutti. Oltre a Cenerentola- Ninetta abbiamo per esempio Don Giuseppe Pero-Il gatto con gli stivali: il gatto però è una volpe e il finale è molto più violento perché don Giuseppe, come un boss della Kalsa, la uccide perché lei sa troppo del suo passato. C’è un altro Giuseppe ciabattino-Ali Babà, ma i ladroni sono solo dodici e al posto di “Apriti sesamo” la formula magica è “Apriti pepe”. Con sostanziosi cambiamenti, quasi sempre cruenti, sono presenti altre versioni di fiabe classiche, da La Bella e la Bestia a Raperonzolo. E non potevano mancare il ciclo di Giufà – appellativo dato in Sicilia fino ai nostri giorni a ogni scemo del paese – e quello di un Bertoldo locale che si chiama Ferrazzano e vince sul potere grazie alla capacità retorica e a una furbizia raccontata quasi come una qualità genetica. Le vittime infatti sono spesso calabresi e napoletani.
Ma ci sono altre storie che sfuggono a ogni precedente, che arrivano da ricordi sconosciuti e producono sceneggiature surrealiste. Una per tutte, che ancora circolava per trasmissione rigorosamente orale fino a qualche decennio fa, è Il vaso del basilico, conosciuta nell’entroterra come Sangue e ricotta. Lei, ancora una Rosina, provoca ogni giorno il bel principe con una domanda lanciata da un balcone: «O figlio del re incoronato, quante stelle ci sono nel cielo stellato? ». L’ossessione porta il giovane a sposarla per poterla uccidere. Sul letto di nozze avviene la decapitazione, poi il principe lecca la spada e dice, tutto anglosassone: «Però, com’eri dolce». Al che Rosina esce da sotto il letto e rivela che la decapitata è solo una pupa di zucchero e miele – i bambini la immaginavano di marzapane e ricotta, come una cassata – e che saranno per sempre marito e moglie. E vissero, imprevedibilmente, felici e contenti.