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 2013  dicembre 27 Venerdì calendario

DIVORZIO ALLA CATALANA


[Artur Mas]

Questa è un’intervista a un rivoluzionario in abito grigio. Un uomo che fuori dalla Spagna conoscono in pochi e c’è una ragione, la spiega lui stesso: «Se fossi stato un calciatore avrei giocato da mediano. Era questo il mio ruolo, da ragazzo: centrocampista. Correre, correre. La politica non mi piace. È un male necessario. La faccio perché non c’è altro modo per realizzare quel che è possibile fare». Si chiama Artur Mas, è il presidente della regione autonoma di Catalogna e sta per scatenare un terremoto. Per la Spagna e per l’Europa, per noi. Ha avviato un processo senza ritorno, vuole la Catalogna indipendente dalla Spagna, ha fissato per il 9 novembre 2014 la data del referendum fra i sette milioni e mezzo di cittadini che governa e pazienza se Madrid dice che non si può fare, pazienza se Mariano Rajoy batte il bastone del comando e dice che assolutamente no, è incostituzionale. «Andremo comunque a votare», dice tranquillo. Se non sarà il referendum — «ma sarà, sarà… » — lui è pronto a far cadere la sua giunta prima della scadenza, 2016, e indire subito elezioni anticipate trasformandole in un voto pro o contro l’indipendenza. E se l’Europa dirà di no si farà lo stesso. Si chiama Artur Mas, e conviene imparare a conoscerlo per tempo, starlo a sentire.

È la vigilia di Natale. Un momento prima di entrare nel suo studio esce da quella porta Jordi Pujol, 83 anni, fondatore del partito di Mas – Convergencia – e per 23 anni presidente di Catalogna. Un gigante della politica spagnola del Novecento. Pujol, in perfetto italiano, si ferma un momento a parlare della mancata elezione di Prodi. Indica con precisione il nome di chi a suo parere ha orchestrato l’agguato. Sorride, narra aneddoti a proposito del presunto mandante. Conosce la vicenda in dettagli sottili. S’informa poi su Renzi. Sorride ancora. «Bene, buona fortuna al suo Paese. Si ricordi, parlando col presidente Mas, che noi catalani non conosciamo la xenofobia. In Italia sì, mi pare. Qui no. Il tema dell’indipendenza, al contrario di quel che avviene altrove, anche da voi in passato con la Lega, non ha niente a che vedere con il disprezzo dello straniero del più debole né è una ragione solo economica. Al contrario. Giustizia e Carità, a questo si ispira la mia politica fin dalle origini. Abbiamo una lunga tradizione di accoglienza, di assistenza. Il catalanismo è una storia di generosità, dunque del tutto estranea al leghismo. Ma non faccia attendere il presidente, per favore. Mi trova qui oggi giusto per gli auguri, ci parliamo di rado ma sono certo che le sue parole saranno le mie». Ultimo sorriso.
Mas ha 57 anni, è un uomo paziente e allenato all’attesa, per due volte ha vinto le elezioni ma alleanze politiche lo hanno lasciato all’opposizione, alla terza vittoria ha governato. Governa ora. Un ‘regista’, dice quasi con pudore, “alla catalana però”, di quelli che ogni tanto segnano anche. Tipo Xavi, intende, o Iniesta. Pep Guardiola ha speso per lui recenti parole di entusiasmo. Più che per Renzi, per capirsi. D’altra parte Mas guarda a Renzi con attento interesse: «Credo che ci capiremmo bene, mi auguro di conoscerlo presto».
Presidente, perché vuole la Catalogna indipendente?
«Non la voglio io, la vogliono i cittadini. Guardi i balconi alle finestre, guardi le bandiere esposte. In città e in campagna, in centro e in periferia, nelle case di chi vota a destra e di chi vota a sinistra. È un movimento trasversale e collettivo. Due milioni di persone sono scese in piazza l’11 settembre, hanno fatto una catena umana. Non c’era rabbia, nelle strade, c’era speranza. È stata una festa. I catalani vogliono andare a votare, nessuno può impedirci di farlo. Andare a votare è un tratto fondante della democrazia».
Perché adesso? Le ragioni non sono le stesse di dieci o venti anni fa?
«Per stanchezza, per fatica. Perché ora basta. Abbiamo dato alla Spagna moltissimo di più di quel che ci ha restituito, sempre. Per troppo tempo, troppo. Troppo a lungo. Il matrimonio è finito. Ci si può separare con civiltà, restando buoni vicini».
È dunque un tema economico, è il dare e l’avere? È come volersi liberare da un padre che quando sei già adulto ti paga il mensile e ti dice anche cosa devi farne?
«È un padre che non ama suo figlio, quello che lo costringe a un rapporto di subordinazione oltre il tempo lecito. Noi viviamo in una condizione di inquilini di un proprietario ostile. Semplicemente: non accettiamo più quelle condizioni, sono ingiuste. La nostra autonomia è in condizioni di grande debolezza, tutto dipende dal governo centrale al quale storicamente paghiamo imposte in una misura enormemente superiore a quanto ci viene poi redistribuito per i bisogni della nostra gente. È questa l’origine del grave deficit fiscale che l’anno scorso ci ha messi in condizione di chiedere un prestito che stiamo restituendo, che restituiremo tutto. Ma ora basta».
Sempre di gettito fiscale, di autonomia nella gestione delle imposte, sempre di soldi stiamo parlando.
«No, stiamo parlando della nostra storia. Io ho 57 anni, non ho potuto studiare il catalano, la mia lingua, a scuola. Nel franchismo era proibito. Oggi tutta la popolazione è bilingue. Le nostre tradizioni, la nostra identità non hanno mai preteso di sopraffare alcuno. La nostra politica è quella dell’inclusione, dell’accoglienza, da sempre, e del rispetto. Però vogliamo essere rispettati, e questo governo non lo fa. I rapporti con il Partito Popolare si sono fatti molto difficili, davvero molto».
Il leader storico del suo partito, Jordi Pujol, è stato in carcere sotto il franchismo. Manuel Fraga, uno dei capi storici del Pp, era ministro di Franco. Forse la storia ha fatto che il Pp si trovi oggi su posizioni assai conservatrici e Convergencia, il suo partito, più vicino alla sinistra, alleato di Esquerra republicana?
«Non è questione di destra o sinistra. È vero che il partito popolare spagnolo ha oggi posizioni, anche sui diritti, molto conservatrici. Ed è vero che Convergencia tiene in sé componenti liberali, socialdemocratiche, democristiane e persino comuniste. Zapatero ha perso, in Spagna, di conseguenza il Pp ha vinto a larga maggioranza le elezioni. Ma in Catalogna è tutto molto diverso. Qui le istanze indipendentiste sono davvero trasversali, e credo che arrivare alla rottura col governo centrale metterebbe in difficoltà popolari e socialisti catalani con esiti, anche a livello nazionale, imprevedibili».
Lei non nasce indipenden-tista, lo è diventato in tempi recenti. Qualcuno potrebbe diffidare, pensare ad una convenienza elettorale. Che lei vada dove tira il vento.
«Personalmente ho solo svantaggi. Solo grandi problemi. Non penso a me, credo anzi che lascerò presto la politica. Farò al massimo un altro mandato, se le condizioni ci saranno, per portare avanti il progetto. Voglio tornare alla mia vita. Quel che faccio lo faccio per un progetto collettivo di futuro nel quale mi sono impegnato. La politica, come le ho detto, non mi entusiasma. Mi affatica ma è necessaria».
È pronto a far cadere il suo governo se Madrid dirà no al referendum?
«Si andrà a votare comunque, sì. Ma credo che il referendum si farà».
E se vincessero i no all’indipendenza? I catalani vogliono andare a votare ma i sondaggi dicono che rispetto al quesito, si o no, si dividono a metà.
«Io credo che vinceranno i sì. Comunque in questione in primo luogo è il diritto ad andare a votare per esprimersi. Gli Stati sono fatti di cittadini. Devono poter decidere. Poi naturalmente mi assumerò la responsabilità politica del risultato, in ogni caso».
Se l’Europa dicesse no al referendum?
«Le pressioni sono forti. Gli stati sovrani non vogliono problemi se li possono evitare. Ci sarà il precedente della Scozia, che voterà prima di noi. Poi verrà la Catalogna. Ho anche considerato che in un momento iniziale, fra il referendum e la proclamazione dell’indipendenza, potremmo restare fuori dall’Europa. Non dall’euro: dall’Unione. Sarebbe un peccato, perché noi vogliamo restare. Bisognerebbe trovare un regime transitorio per evitare l’espulsione dall’Unione. Faremmo comunque richiesta di rientrare. Noi vogliamo stare nell’euro, nell’Unione, in Schengen e nella Nato».
Crede che il sistema bancario vi sosterrebbe?
«Alle banche non interessa la politica, quel che cercano è solvenza. I catalani hanno 28mila euro di reddito pro capite, come i tedeschi. Le banche spagnole hanno il 20 per cento del loro mercato qui. Nel mondo degli affari gli ideali non esistono, esiste l’interesse».
La Catalogna è davvero pronta a staccarsi dalla Spagna? Non è solo un modo, questo, per incassare il risultato del voto e andare a Madrid a trattare un diverso regime fiscale e maggiore autonomia?
«No. La stagione politica degli intermediari, dei trucchi sottobanco, di chi ha parole diverse per interlocutori diversi è finita. Il Novecento è finito. Certo, dopo un referendum si deve trattare, è ovvio. Si discute. Ma si discute come separarsi restando in rapporti di buon vicinato. Solo questo. Non cerchiamo la rottura, cerchiamo l’emancipazione. Su questo non ci saranno marce indietro».
Sembra molto ottimista, più dei giornali del mattino.
«Sono un ottimista coi piedi per terra. Sono realista».
Dicono di lei che non ha abbastanza carisma per guidare una rivoluzione.
«Carisma? A scuola andavo bene in tutte le materie ma non eccellevo in nessuna. Ho sempre fatto il mio dovere. A un certo punto ho scelto la politica, dopo aver fatto l’imprenditore. E’ stata una scelta e la onoro. Non so se mi amano, penso che mi rispettino. In fondo lo preferisco».
Guardiola la stima e la sostiene. Lei, in cambio, pensa che potrebbe tifare Bayern Monaco?
«Non scherziamo. La mia squadra è il Barca. Il Bayern è il mio rivale. Pep Guardiola è mio amico».
Se la Catalogna non potrà andare al voto cosa si aspetta che succeda?
«Il referendum si farà, e i catalani vinceranno. Vedrete. in alternativa andremo ad elezioni anticipate. Credo che per un poco, dopo, dovrò ancora restare. Non sarà facile, ma per noi niente è stato facile. Mai».