Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  dicembre 27 Venerdì calendario

MISSILI E DRONI ANTI-AL QAEDA L’AMERICA “TORNA” A BAGHDAD


È un conflitto nel conflitto, una guerra quasi ignorata ma che miete ogni giorno vittime figlie della violenza alimentata dalle divisioni settarie e dal ritorno di Al Qaeda. È questo l’Iraq di oggi: a poco più di dieci anni dall’invasione americana volta a far cadere il regime di Saddam Hussein, il Paese è intrappolato tra una cronica fragilità politica, divisioni intestine e le ricadute del vicino conflitto siriano. Il rafforzamento delle milizie islamiste nel Nord del Paese vicino ha creato un incubatore di estremisti affiliati ad Al Qaeda che vivono a cavallo fra Siria e Iraq rendendosi protagonisti di attacchi terroristici che stanno creando una lunghissima striscia di sangue.
È in particolare lo «Stato islamico di Iraq e Siria», la formazione più forte in questa zona del Medio Oriente, tanto attiva a combattere le forze di Damasco ma anche le stesse fazioni di ribelli anti Assad considerate più moderate.
Una escalation di violenza mai vista dalla fine della missione americana in Iraq (il ritiro delle truppe risale a fine 2011) e tale da spingere lo stesso governo di Baghdad a rivolgersi nuovamente a Washington per chiedere aiuto. Gli Usa hanno così deciso di inviare droni per la sorveglianza e decine di missili al governo iracheno per aiutarlo a combattere e porre un freno all’esplosione di violenza da parte dei ribelli vicini ad Al Qaeda. Una decisione maturata dopo la richiesta avanzata dal primo ministro Nuri al Maliki, e probabilmente discussa il mese scorso a Washington, durante l’incontro con il presidente Barack Obama. Sono in molti tuttavia a chiedersi se un intervento del genere sia sufficiente a contrastare in maniera efficace l’ondata di violenze di cui si sta rendendo protagonista il braccio armato di Al Qaeda. Sono diversi gli esperti militari a ritenere che difficilmente migliorerà la drammatica situazione della sicurezza in uno Stato in cui, solo nel 2013, il terrorismo ha provocato la morte di 8.000 iracheni, di cui 952 delle forze di sicurezza: il più alto livello di violenza dal 2008, secondo le stime delle Nazioni Unite.
Lo «Stato islamico di Iraq e Siria» è diventato assai potente nella regione del nord-ovest del Paese, i miliziani sono armati fino ai denti e perfettamente addestrati. Si muovono alla guida di convogli rendendosi protagonisti di blitz nei villaggi e nelle città dove minacciano la popolazione, uccidono rappresentanti delle istituzioni e del governo locale, massacrano in agguati e attentati alti dirigenti delle forze armate irachene, come è capitato la settimana scorsa al comandante della settima divisione armata dell’Esercito vicino al Rutbah. Un’azione nata in risposta all’attacco compiuto dalla Settima Divisione dell’Esercito in un campo di addestramento vicino alla cittadina e portata a termine con un kamikaze.
Gli attentati si sono moltiplicati a ridosso delle festività natalizie, nei quali sono stati uccise oltre venti persone. Un quadro che stride con quello dipinto solo un anno fa dall’amministrazione Obama, secondo cui l’Iraq aveva imboccato la giusta strada verso la normalizzazione, nonostante il mancato accordo su un prolungamento della presenza militare americana nel Paese. C’è chi a Baghdad vorrebbe un maggior coinvolgimento degli Stati Uniti, specie negli ambienti vicini al ministero degli Esteri che sarebbe favorevole anche ad azioni condotte con Predator e Ripper dagli stessi americani. Un’ipotesi che però non attrae al-Maliki conscio dello spirito nazionalista di gran parte del popolo iracheno e soprattutto determinato a svolgere un terzo mandato alla guida del Paese.